sabato 5 marzo 2011

Napoli rinasce con la musica

La cantante israeliana Noa in concerto a Napoli, al Teatro Sannazaro, ha presentato il suo ultimo lavoro discografico, contributo al rilancio della città partenopea.Napoli è bella. A volte, forse, è difficile ricordarlo. Si fa fatica anche solo immaginare che dietro le montagne scomposte di rifiuti e immondizia, vergogna d'Italia, si nasconda intatta la bellezza travolgente di una città. «I napoletani devono combattere per salvare la bellezza di Napoli», dice la cantante Noa, "la scugnizza d'Israele", profondamente legata all'Italia e alla nostra cultura. «Se io, con la musica, posso contribuire anche in minima parte a ricordare ai napoletani l'importanza della loro eredità musicale in tutto il mondo, per me sarà un grande onore». Noa ha presentato in anteprima mondiale al Teatro Sannazaro di Napoli, accompagnata da Gil Dor e Solis String Quartet, il suo nuovo lavoro discografico, Noapolis. Noa sings Napoli, nel quale la cantante di origine yemenita ripropone alcuni dei brani più famosi della tradizione partenopea, cimentandosi con il dialetto napoletano. Anteprima mondiale a Napoli perché così Noa stessa aveva promesso a dicembre 2010, partecipando a Napoli a un "Dialogo con la città" nella Galleria Umberto I, nell'ambito del Giubileo per Napoli indetto dal cardinale Crescenzio Sepe: «Ho vissuto una bellissima esperienza alla Galleria Umberto I», ricorda Noa, «il cardinale Sepe ha organizzato un evento per parlare del ruolo e del significato della bellezza in rapporto a Napoli invitando vari studiosi e giornalisti. Anche io ho avuto l'opportunità di parlare e di cantare delle canzoni. E la reazione è stata incredibilmente entusiastica, i napoletani mi hanno accolto con grande affetto». E aggiunge: «La musica partenopea, come retaggio culturale, è importante non solo per i napoletani ma anche per me che sono israeliana-yemenita-americana e per chiunque altro nel mondo. La musica è parte della nostra vita e delle nostre città. Ricordando quando sia importante la loro eredità musicale, forse i napoletani combatteranno con più energia per salvare la loro città». In occasione del Giubileo del 2000 Noa ha cantato in piazza san Pietro, in presenza di papa Giovanni Paolo II; ora, la cantante ha prestato la sua voce per l'Anno giubilare per Napoli, indetto per il 2011 dalla Chiesa partenopea come segno di speranza per una città che, negli ultimi anni, ha fatto parlare soprattutto in rapporto all'emergenza rifiuti e al problema della criminalità. Come ha sottolinato anche Noa, il riscatto di una città parte in primo luogo dal suo patrimonio culturale e artistico. Nell'ambito del programma giubilare, marzo è il mese dedicato alla cultura: fra le varie iniziative, molte chiese rimaste chiuse per anni vengono riaperte al pubblico e messe a disposizione della collettività. http://www.famigliacristiana.it/

Un editore particolare (in Israele)

Sull’ultimo numero del settimanale New Yorker, il direttore David Remnick ha scritto uno splendido ritratto/intervista di Amos Schocken, editore di Haaretz (Il Paese), il quotidiano più progressista di Israele. Un giornale che ho letto tutti i giorni (nella versione che pubblica in inglese) negli anni in cui ero corrispondente di “Repubblica” da Gerusalemme, e che continuo a consultare di tanto in tanto online. Uno dei migliori giornali del mondo, per la qualità dei suoi editoriali, delle sue analisi, delle sue inchieste, dei suoi reportage. Un giornale che ha sempre irritato una parte dell’opinione pubblica dello Stato ebraico per le sue posizioni radicalmente a favore del processo di pace e delle concessioni da fare ai palestinesi, ossia dell’esigenza di mettere fine all’occupazione della Cisgiordania, che dura da più di quarant’anni, e di dare loro uno stato lungo i confini del ‘67 con Gerusalemme est come capitale. Oggi, in un Israele che si è spostato su posizioni più di destra, Haaretz è ancora più isolato, attaccato, vituperato di prima da molti israeliani. Ma il suo editore non fa una piega. E’ figlio e nipote della dinastia di ebrei tedeschi che controlla Haaretz da decenni. E’ un uomo ricco, sebbene non ricchissimo. Ed è apparentemente pronto a giocarsi tutto per continuare a svolgere il suo ruolo, che è questo, come dice il suo direttore Don Alfon nell’inchiesta di Remnick: “Abbiamo una missione. Dire la verità all’opinione pubblica israeliana e spiegare le conseguenze di queste verità”. Ai lettori, anche quelli progressisti, che talvolta anzi sempre più spesso scrivono all’editore lamentandosi delle posizioni assunte da Haaretz, il proprietario Schocken risponde così: “Temo che Haaretz non faccia per lei”. Meglio perdere un lettore, che rinunciare alla propria missione. http://franceschini.blogautore.repubblica.it/


Israele ringrazia Papa
''accogliamo con tutto il cuore l'enfasi rimarcata dal papa nel suo nuovo libro, in cui solleva gli ebrei dalla responsabilita' per la morte di Gesu'''. l'ambasciata israeliana presso la santa sede saluta con soddisfazione l'uscita del nuovo libro di benedetto xvi, ''Gesu' di Nazareth'', che sara' presentato il 10 marzo e in cui parla dell'identita' degli accusatori di gesu' chiarendo che in ogni caso nei vangeli, ''non e' indicato il popolo degli ebrei come tale''. in una nota, l'ambasciata sottolinea come le parole del Pontefice siano ''coerenti con la politica ufficiale della chiesa a partire dalla dichiarazione nostra aetate del 1965. inoltre e' una conferma della ben nota posizione del papa a favore del popolo ebraico e dello stato d'israele''.''non dovremmo dimenticare - prosegue la nota - che senza la nostra aetate non ci sarebbe stato un processo diriconciliazione tra ebrei e cattolici da una parte e santa sede e israele dall'altra. speriamo - conclude il testo - che questo suo atteggiamento positivo sia di ispirazione per piu' di un miliardo di cattolici sparsi in tutto il mondo''.http://www.lastampa.it

Israele: sì a uno Stato dell'Anp

Lo annuncia il primo ministro israeliano Netanyahu che prevede di lanciare l’iniziativa diplomatica a maggio. Netanyahu dovrebbe dare nell'occasione il suo assenso a uno Stato palestinese con confini provvisori e all'allargamento delle zone autonome in Cisgiordania. Gerusalemme vuole così interrompere il suo isolamento nell'areaIl primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu prevede di lanciare a maggio un'iniziativa diplomatica destinata a fare uscire Israele del suo isolamento internazionale: lo riferiscono oggi i media locali, spiegando che l'iniziativa dovrebbe essere annunciata durante un discorso al Congresso Usa nel corso della visita del premier israeliano a Washington il 22 maggio prossimo.Secondo la radio pubblica dello Stato ebraico, Netanyahu darebbe in questa occasione il suo assenso a uno Stato palestinese governato dall'Anp (escludendo quindi Hamas che domina nella SDtriscia di Gaza) con confini provvisori e all'allargamento delle zone autonome palestinesi in Cisgiordania. Secondo la radio militare, Netanyahu rinuncerebbe anche all'annessione al territorio israeliano della Valle del Giordano, in Cisgiordania, pur continuando a pretendere la presenza di militari israeliani al fianco di una forza internazionale in quest'area considerata strategica, al confine tra il futuro Stato palestinese e la Giordania. http://www.grr.rai.it/


kibbutz Samar

Chiaramente la sommossa nei paesi arabi è stata concertata dai cospiratori di Tel Aviv. Israele, lo stato fantoccio di Obama, ne trae il massimo vantaggio. Anzi, Israele e Obama escono massimamente svantaggiati dalla sommossa. Israele è il paese che maggiormente si oppone ai cambiamenti nei regimi arabi. Forse per via della nonna ebrea di Gheddafi. Perché l'insurrezione è stata causata da Facebook che è un'invenzione dell'ebreo americano Mark Zuckerberg. Ma la vera causa è stato Wikileaks di Julian Assange, istigato dai cospiratori di Tel Aviv con l'appoggio del Guardian. Anzi, sono gli ebrei che stanno dando la caccia a Assange con l'appoggio del Guardian. Ecco la prova: questa settimana l'ebreo Rahm Emanuel, ex-scudiero di Obama e figlio di israeliani, è stato eletto sindaco di Chicago; l'ebrea Natalie Portman, figlia di israeliani, ha vinto il premio Oscar come migliore attrice; l'ebrea Yael Naim, figlia di israeliani, è stata eletta migliore cantante in Francia. Sono sempre loro.
Sergio Della Pergola,Università Ebraica Gerusalemme, www.moked.it

Accordo Iran-Siria, così l'esercito della Repubblica Islamica mette piede nel Mediterraneo

L’accordo, passato in silenzio in Europa, è di quelli che cambiano la geopolitica mediterranea. Perché, nave dopo nave, l’Iran costruirà la sua prima base navale nel Mediterraneo. Non è più un timore dei servizi di sicurezza israeliani. E non è nemmeno l’ennesimo allarme di Gerusalemme.Dal 25 febbraio c’è un patto formale, in cui i due paesi, Iran e Siria, si impegnano a lavorare nei prossimi mesi alla costruzione di un porto di appoggio per la marina – militare – di Teheran. A pochi metri di distanza da quello di Latakia.La base, stando a quanto previsto dall’accordo, avrà anche un deposito di armi che sarà gestito dalla tecnologia usata dalla guardia rivoluzionaria iraniana. Si partirà dall’allargamento del porto di Latakia, per passare poi all’abbassamento del fondo marino dell’area e all’installazione di tutta la strumentazione necessaria a trasformare la zona in area militare. In questo modo potranno attraccare non solo le navi della marina, ma anche i sottomarini.La notizia è importante per almeno due ragioni. La prima: in questo modo l’Iran mette piede in modo stabile nel Mediterraneo (così come anticipato, sempre su Falafel Cafè, il 16 febbraio scorso). La seconda: la Repubblica islamica, con una postazione fissa in Siria, sarà in grado di gestire da nord e da est un eventuale conflitto in Medio Oriente. Ahmadinejad, ora, è a soli 287 chilometri da Israele.A tutto questo si aggiunge anche dell’altro. Per esempio, l’accordo russo-siriano che prevede la vendita a Damasco di missili da crociera (cruise) che non sono rintracciabili dai radar militari e con un raggio d’azione di trecento chilometri. Quanti ne basterebbero, in una eventuale guerra contro Israele, per colpire il porto più settentrionale del Paese, Nahariya. Che si trova, appunto, a 287 chilometri.I movimenti degli ultimi giorni hanno un loro senso, nello scacchiere mediorientale. Il punto d’appoggio siriano dell’Iran e la vendita di missili russi a Damasco chiudono un giro di accordi, nascosti e non, in cui Russia, Siria e Iran si alleano contro l’asse Usa-Israele per depotenziare – come prima cosa – la Sesta flotta della marina americana che si trova in pianta stabile nei pressi dell’area.Così, mentre Europa e Usa guardano al Nord Africa, e mentre Israele alza la voce (ma resta inascoltata), a poche centinaia di chilometri dell’Ue si apre un nuovo fronte diplomatico e militare per la comunità internazionale.

giovedì 3 marzo 2011


C’ERA UNA VOLTA L’IMPERO OTTOMANO

Molti giornalisti, sia inviati che opinionisti, scrivono in qualità di "esperti di Medio Oriente", e come tali stilano diagnosi e formulano prognosi. Ma come non dico un luminare della medicina, ma anche un'infermiera principiante neodiplomata sa perfettamente, nessuna diagnosi, né tanto meno prognosi sono possibili se prima non si è proceduto ad una accurata anamnesi del paziente. Nel caso specifico: studio della storia. Ed è proprio in questo campo che le lacune dei nostri "esperti" si manifestano in tutta la loro sconsolata e sconsolante dimensione. Ed è per tentare di riempire tali lacune che ci accingiamo a scrivere questo breve articolo, cominciando dal principio.E dunque...C'era una volta l'impero ottomano. Che non era il paradiso in terra, no, nessuno oserebbe sostenere una simile assurdità: era un regime autocratico, ampiamente corrotto, in cui i non musulmani vivevano come dhimmi, cittadini di serie B con notevoli limitazioni nei propri diritti e nelle proprie libertà. Ma che nel corso dei secoli aveva raggiunto un suo equilibrio, in cui le sue diverse componenti, le sue diverse etnie, le sue diverse culture, avevano raggiunto un modus vivendi più o meno accettabile.Poi scoppiò la I guerra mondiale, e il mondo cambiò faccia. In particolare, cadde il millenario impero asburgico e cadde l'impero ottomano: si sbriciolarono, entrambi, dando vita a una miriade di nuove realtà. Dalla dissoluzione dell'impero asburgico nacquero vari stati nazionali, perlopiù sostanzialmente omogenei (con l'eccezione della Jugoslavia, accozzaglia di popoli appiccicati a forza e immediatamente tornati a separarsi, in alcuni casi in modo sanguinoso, non appena venne meno la morsa di ferro comunista, e della Cecoslovacchia, che si divise invece pacificamente), che conservano ancora oggi l'assetto di allora. Non così andarono le cose per l'impero ottomano: sulle sue spoglie si gettarono immediatamente le mani fameliche di Francia e Gran Bretagna prima ancora che la guerra fosse conclusa (accordi Sykes-Picot, 1916), che si spartirono la torta facendo nascere dal nulla realtà nazionali senza alcuna base storica (Giordania, Iraq, Kuwait), dividendo etnie che stavano insieme dalla notte dei tempi, costringendone altre, dalla notte dei tempi diverse e ostili, alla convivenza forzata in uno stato tracciato sulla carta con matita e righello. Stati artificiali, regimi del tutto estranei alla storia e alla cultura delle popolazioni cui venivano imposti, a volte addirittura governanti stranieri, come nel caso dell'hashemita Abdallah detronizzato dall'Arabia, per il quale la Gran Bretagna ritagliò un pezzo di Palestina, ne fece uno stato nuovo di zecca, la Giordania - per la quale si dovette addirittura inventare un nome prendendolo dal fiume che ne segnava il confine, tanto era inesistente da ogni punto di vista - e glielo regalò (e, per inciso, tale stato divenne istantaneamente il primo stato completamente judenrein della storia moderna).Le conseguenze? Le abbiamo sotto gli occhi. Difficile immaginare che qualcuno possa sentire come "patria" un'entità disegnata sulla carta. Difficile immaginare che qualcuno possa provare devozione per un governo imposto. Il grande califfato, certo, si è dissolto a causa della propria fragilità strutturale, è imploso perché era marcio fino al midollo, non per colpa dei nemici esterni, ma questo, i suoi orfani, non hanno avuto modo di comprenderlo: a causa dell'ingordigia dissennata di Francia e Inghilterra (si può essere ingordi assennati? Forse, o forse no; in ogni caso non lo sono state le due potenze in questione), gli orfani dell'impero ottomano non hanno avuto la possibilità di elaborare il lutto, e l'unico loro desiderio è di ridare vita a ciò che hanno perso: un impero potentissimo che godeva della considerazione e del rispetto del mondo intero. Questa è la realtà che dovrebbero prendere in considerazione i tanti che cercano di capire dove sta andando il Medio Oriente: qui è dove vuole arrivare il progetto delle menti islamiche più "raffinate": un nuovo califfato, dove l'islam possa finalmente regnare sovrano, portando ovunque la "sua" pace (ed eliminando tutti i nemici dell'islam, quelli del sabato e quelli della domenica, oltre a quelli di un venerdì troppo tiepido - piccolo particolare da tenere sempre ben presente). Qualcuno lo dice chiaramente (Bin Laden, Hamas, Hezbollah e, anche se in modo apparentemente più sfumato, la dirigenza dei Fratelli Musulmani), altri non lo dicono, ma agiscono per arrivare allo stesso risultato (gli imam iraniani), altri ci pensano ma non lasciano trasparire il loro pensiero (Erdogan). Il disegno sembra essere oggi comune a tutti loro, e si intrecciano perfino accordi di vario genere per arrivare alla meta che comunque sarà, sì, comune, ma non poi sotto il controllo di tutti loro. Vogliono fare il cammino insieme per un momento, come il corano insegna loro, finché domineranno tutte le terre, finché avranno spazzato via quegli stati artificiali che la storia ha dimostrato non avere alcun senso logico, e poi si combatteranno tra di loro per essere LA potenza dominante. Prima o poi si dovrà decidere se sarà l'Iran sciita o Al Qaeda o il novello imperatore ottomano a dover dominare il mondo. E saranno nuove, spaventose guerre. Se vogliamo non arrivare a questo, dobbiamo capire, fin da oggi, che questo potrebbe essere il disegno di alcune potenze e, di conseguenza, preparare un piano che preveda un nuovo ordine che sostituisca quello che non ha più ragione di esistere, ma che possa essere a vantaggio di tutti i popoli.Barbara Mella,Emanuel Segre Amar,3 marzo 2011, http://ilblogdibarbara.ilcannocchiale.it/


Neghev - parco Timne

Le rivolte in Medio Oriente e il rischio terrorismo in Israele

“Il rischio di una minaccia terroristica nei confronti di Israele non è sovrastimato”, così il viceministro degli Esteri israeliano, Danny Avalon, si è espresso, nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles in merito all’ondata rivoluzionaria che sta agitando Nord Africa e Medio Oriente. “Guardando indietro alle reazioni di fronte alla rivoluzione in Iran – ha spiegato il viceministro – sul momento non si è riconosciuto il rischio e si sa cosa è successo dopo. Abbiamo visto la stessa cosa con Hamas”. Il timore è quello di una possibile carenza di alternative ai regimi islamisti per uscire dalle dittature del passato. Il “pericolo” da evitare potrebbe essere quindi basato su due fattori: “Il primo – ha precisato – sono le esperienze con Hamas, gli islamisti di Khomeini e gli Hezbollah in Libano; il secondo è che vediamo un maggior coinvolgimento di islamisti nella regione”. Per contenere il rischio occorre allora che la popolazione venga coinvolta, ad esempio dal movimento del 25 gennaio in Egitto. “E’ un movimento genuino e spontaneo – ha detto il viceministro degli Esteri israeliano – di giovani che vogliono il cambiamento”.1 marzo 2011, http://www.moked.it/


Gerusalemme - suoni e luci

Il paragone sbagliato di Umberto Eco

Il paragone recentemente formulato da Umberto Eco, in occasione della Fiera del libro di Gerusalemme, tra Berlusconi e Hitler appare profondamente sbagliato e offensivo, per diverse ragioni.Innanzitutto - ma è l’argomento che ci interessa di meno -, se il semiologo, più che esprimere una valutazione storica, intendeva soprattutto esternare la sua avversione al premier italiano, è evidente che non ha affatto raggiunto il suo obiettivo, in quanto i sostenitori di questo (come era logico e prevedibile) hanno facilmente sfruttato la gaffe come ennesima, autorevole dimostrazione del presunto “odio antiberlusconiano”, che porterebbe i detrattori del Presidente del Consiglio, anche quelli di maggiore levatura culturale, a dire qualsiasi sciocchezza pur di colpire il loro eterno bersaglio.Nel merito, lo scrittore ha fondato il suo giudizio sul fatto che entrambi i personaggi evocati sarebbero saliti al potere grazie a libere elezioni, per poi dare cattiva prova di sé. Da questo punto di vista, l’osservazione appare di una grande banalità, perché il parallelismo (anche accettando, ovviamente, l’iscrizione del nostro discusso Silvio nel “libro nero”) potrebbe allora estendersi ad altre centinaia di personaggi, probabilmente alla maggioranza dei capi di stato e di governo saliti alla ribalta nel Novecento e nei primi anni del nuovo secolo. Basterebbe fare l’elenco dei vari leader dell’America latina, dell’Africa, dell’ex Unione Sovietica, dei Balcani ecc. per rendersene conto.Se poi, come abbiamo detto, Eco non è riuscito a offendere Berlusconi, è certamente riuscito a offendere gli ebrei, e chiunque abbia a cuore la memoria della Shoah, al cui processo di banalizzazione, con le sue parole, ha dato un notevole contributo. “Hitler, certamente, è stato cattivo, ma uno dei tanti, e la sua cattiveria è facilmente emulabile, anche da parte di uno come Berlusconi, che - comunque lo si voglia giudicare - difficilmente può essere ascritto alla categoria dei ‘geni del male’, o dei ‘supermostri’”. Questo, piaccia o non piaccia, è il senso del messaggio.Se, infine, la sortita è stata infelice, infelicissimo il luogo in cui è stata pronunciata, Gerusalemme, dove la conoscenza di Hitler non passa attraverso i libri di storia, ma è scolpita nella viva carne di tutti i cittadini. Non se ne poteva scegliere uno peggiore. Così come abbiamo severamente criticato (nel Pilpul del 6 ottobre scorso) la volgare battuta di Berlusconi sulla Shoah, stigmatizziamo quindi le parole di Eco. Dovremmo dire, forse, che la delusione, in questo caso, è stato maggiore, provenendo tali parole da un grande intellettuale, di levatura mondiale. Ma sappiamo bene che la superficialità e la grossolanità nei confronti degli ebrei e della loro storia non albergano solo nell’ignoranza e nella stupidità, ma fanno facilmente breccia anche nella cultura e nell’intelligenza. Ce l’ha insegnato, fra gli altri, proprio Umberto Eco, che all’antisemitismo colto ha voluto dedicare il suo ultimo, fortunato romanzo. Francesco Lucrezi, storico http://www.moked.it/



l’Istituto Bialik-Rogozin
Riflettori sul cinema israeliano

Per il presidente Shimon Peres l’esito degli Academy Awards rappresenta un riconoscimento importante per Israele. "Il prestigioso riconoscimento artistico - ha dichiarato il presidente dello Stato israeliano - ha finalmente indirizzato l’attenzione dei media internazionali sull’umanità che la nostra società sa esprimere". Alla cerimonia di premiazione, che si è svolta nella tradizionale cornice del Kodak Theatre di Hollywood, la parte della prima donna è spettata a Natalie Portman. La giovane attrice, già data per favorita, ha vinto l’Oscar come Miglior protagonista femminile per la convincente interpretazione ne Il cigno nero di Darren Aronofsky.La giuria degli Academy Awards conferma così l’esito dei Golden Globe: il secondo premio cinematografico più prestigioso aveva già incoronato Natalie Portman Miglior attrice del 2010. Commossa, l’israeliana è stata accolta sul red carpet da un lunghissimo applauso.Ma il successo più gradito al presidente Peres, che "mette in luce l'umanità di Israele", è senza dubbio quello, meno atteso, di Stranger no more. Vincitore della statuetta iridata per la categoria Miglior documentario breve, il cortometraggio girato da Karen Goodman e Kirk Simon racconta la condizione dei lavoratori immigrati e dei loro figli che studiano alla scuola pubblica di Tel Aviv. Nel cuore della capitale economica d'Israele c'è l’Istituto Bialik-Rogozin: vi studiano bambini e ragazzi provenienti da quarantotto paesi diversi, le cui famiglie versano per lo più in condizioni di povertà e disagio. Come illustrano le interviste realizzate da Goodman e Simon agli allievi della scuola - molte di queste famiglie sono in fuga da regimi oppressivi, diseguaglianze, disoccupazione, fame. In questo istituto i figli dei migranti e dei perseguitati politici vengono accolti senza badare a criteri di provenienza geografica. Non vengono più considerati stranieri, da cui il titolo del documentario. I giovani della scuola Bialik-Rogozin raccontano al regista le situazioni da cui sono fuggiti e il percorso d'integrazione che hanno intrapreso in Israele, la difficoltà e le speranze. Infine va segnalata la tripletta incassata da The social network. Il film che racconta la storia del giovane Mark Zuckerberg e del colossale network da lui creato si è aggiudicato i titoli di Miglior montaggio, Miglior colonna sonora originale e Miglior sceneggiatura non originale. Il produttore di The social network Scott Rudin si è dovuto accontentare di tre riconoscimenti minori, dopo aver visto sfumare l’illusione della nomination per il titolo di Miglior film. La statuetta più ambita se l’è aggiudicata Il discorso del re: Miglior film, diretto da Tom Hooper (Miglior regia), interpretato da Colin Firth (Miglior attore protagonista).A bocca asciutta i fratelli Joel e Ethan Coen. Il Grinta, il loro nuovo western che fa il verso al film con John Wayne del 1969, non ha visto premiata nessuna delle dieci nomination ottenute.Manuel Disegni,http://www.moked.it/


I dubbi dei progressisti Usa: bombardare o no Gheddafi

Il Giornale, 2 marzo 2011, Fiamma Nirenstein
Chi prima contrastava l'uso della forza per esportare la democrazia ora è in imbarazzo. Obama incluso: arma la flotta, ma esita a usarla. Intanto l'ex dissidente anti Saddam chiede agli Usa di andare in fondo e cacciare il Colonnello«If you have to shoot, sho­ot, don’t talk» dice Lee Van Cleef in "Il buono, il brutto e il cattivo", mentre fa fuori l’as­sassino che era venuto per ac­copparlo e invece si è perso in inutili minacce. La parabo­la non ha niente di feroce, è solo realistica: noi parliamo e parliamo e intanto i destini si compiono. Anche i destini di giovani, donne, bambini innocenti, se non viene fermato il tiranno determinato a sedersi sul cumulo delle loro vite. Anche adesso che, dopo un biennio di tentennamenti obamiani, gli Usa cercano di mostrarsi decisi di fronte alla rivolta del mondo arabo, Hillary Clinton h! a cercato tuttavia di esorcizzare la memoria recente di un’America troppo interventista dicendo e negando, volendo e rifiutando. Intervenire sì, ma con juicio, fermare Gheddafi, ma senza armi. La Clinton sa bene che uno dei motivi principali dell’elezione stessa di Obama è sempre stata la sua violenta contrapposizione alla figura di George W. Bush e al rifiuto del tema dell’esportazione della democrazia sulla punta della lancia.Adesso Clinton è in imbarazzo: mentre da una parte sostiene con determinazione e a ragione che Gheddafi deve lasciare il potere, anzi, che deve andarsene dalla Libia, anzi, che per gli Usa «tutte le opzioni sono sul tavolo», torna sulla necessità di evitare l’uso della forza militare. Lo dice però mentre il Pentagono muove verso la Libia le proprie forze militari, con la nave d’assalto anfibio Kearsarge, che ha a bordo elicotteri e 1.800 marines, che si avvicina alla costa, mentre la Nato deve mettere in atto la no fly ! zone e abbattere eventualmente i Mig libici che si levassero in volo. Non lo si può fare mandando un mazzo di rose.L’Inghilterra ha già inviato i suoi aerei C130 per far allontanare i suoi connazionali dal deserto: ci è riuscita, ed è un miracolo che non ci siano stati scontri. Anche noi adesso che il trattato è sospeso abbiamo i nostri porti in condizioni di servire da eventuali basi per azioni militari. Intanto Gheddafi, lo ripete e lo dimostra, non ha nessuna intenzione di andarsene: è indebolito, ma non vinto. I suoi nemici non riescono a penetrare a Tripoli la sua fortezza fatta di intimidazioni spietate, di potere, di armi puntate, di cieca fedeltà. In secondo luogo, ci sono molte ragioni di pensare che il raìs voglia ancora combattere. È di ieri la notizia apparsa sul Telegraph che nel deserto gli inglesi hanno trovato depositi di 14 tonnellate di gas mostarda, un’arma non convenzionale uguale a quella che usò Saddam Hussein contro i curdi facendon! e immensa strage. E ancora ieri, inoltre, le torri di controllo degli aeroporti controllati dal rais registravano il decollo e l’atterraggio di aerei di Gheddafi. Alla giornalista Christiane Amanpour, dopo averle fatto una gran risata sul muso quando gli ha chiesto se intendeva mollare, Gheddafi ha detto che si era autobombardato dall’aria due depositi di armi a Bengasi per dimostrare la sua antipatia per la violenza armata. Figuriamoci.Fatto sta che due depositi sono stati bombardati davvero, così come qualcuno già si aggira probabilmente fra i ribelli di Bengasi per dar loro manforte. E si sa benissimo che la Nato starebbe mettendo a punto una forza aerea per mandare armi ai ribelli. Insomma, l’ipotesi di fermare il ben rintanato Gheddafi con la forza pare realistica. Gheddafi, come una stella che si spenge lanciando altissimi e distruttivi getti di materiale infuocato, può ancora uccidere molto, impazzire ulteriormente, fare molto male.Ahmad Ch! alabi, il leader sciita che fu fra i primi coraggiosi dissidenti iracheni, racconta come nel 1991 alla fine della prima guerra del Golfo Saddam Hussein avesse perduto 14 delle 18 province irachene e si trovasse con l’esercito in stato comatoso e la sua fanatica guardia personale, molto simile a quella di Gheddafi, a pezzi. Ma Colin Powell (allora capo di Stato maggiore) e Brent Scowcroft convinsero Bush a dare a Saddam la possibilità di far volare i suoi aerei militari per calmare i rivoltosi. Si temeva l’incontrollabilità di una situazione irachena impazzita. Il risultato fu una strage spaventosa di circa 330mila iracheni, mentre gli americani stavano a guardare. Dice Chalabi che non è un caso che Gheddafi abbia menzionato l’Iraq nelle sue folli tirate, è una minaccia di usare la forza bruta. È uno sberleffo alla paura dell’Occidente, un ammiccamento a mantenere una qualunque stabilità. Chalabi ricorda come si ritrovarono 313 enormi fosse comuni e ricorda come n! e visitò orripilato lui stesso una appena scoperta: vi erano stati gettati 12mila uccisi, macellati perché ribelli.Il mondo, dopo che ciò che Gheddafi ha fatto in queste settimane, sa che cosa egli possa ancora fare al suo popolo. Ma poiché un personaggio come questo, responsabile dell’attentato di Berlino e di quello di Lockerbie e di un continuo sostegno al terrorismo, con uno straordinario record di violazioni di diritti umani ha presieduto il Consiglio per i diritti umani dell’Onu fino a oggi, tutto è possibile. Per esempio, che per amore della «stabilità » lo si lasci resistere ancora a lungo nel bunker di Tripoli a preparare il secondo round.


YOSEPH COLOMBO

Il preside Colombo nella presidenza del Berchet, in una foto a cavallofra gli anni cinquanta e sessanta.
Yoseph Colombo nacque a Livorno il 21 novembre 1897, dal rabbino Samuele Colombo. Si formò nell'ambito della comunità ebraica livornese, ed arrivò a diciotto anni al primo titolo rabbinico nel Collegio rabbinico di Livorno, e risentì fortemente dell'insegnamento dell'ultimo cabalista ebraico italiano, Elia Benamozegh, che era con suo padre stato a capo della Comunità di Livorno, e del cui pensiero, che illustrerà in seguito con numerosi ed importanti studi, fino ad arrivare alla pubblicazione delle parti della "Teologia" lasciate inedite dal Benamozegh, egli fu l'unico autentico conoscitore in Italia. Si laureò a Pisa nel 1920 con Giovanni Gentile. Insegnante e poi preside al Liceo "Roiti" di Ferrara dal 1922 al 1938, ben presto concentrò la sua attività sul programma della realizzazione della scuola ebraica italiana, e con una relazione al IV Convegno giovanile ebraico di Livorno nel 1924 sul "Problema della scuola ebraica in Italia", egli espresse già con grande chiarezza il principio che sempre lo animò nella sua opera: solo fondando e potenziando la scuola ebraica, la comunità italiana può scongiurare il pericolo di una completa assimilazione, cioè a dire della sua scomparsa. Ma per fondare una buona scuola occorrono buoni maestri. Vorremmo citare qui le sue parole al riguardo, certi che lo ispirarono anche durante la sua guida del Liceo Berchet:"E' il maestro che fa la scuola. E' il maestro che attua tutte le riforme di questo mondo, che le manda a monte se è inetto, che le realizza se è capace. Non che non si trovino individui, tanto maestri che maestre, ebrei ed ebree, che siano disposti ad accettare incarichi di insegnamento nelle nostre scuole; ma essi non possiedono quella figura che vorremmo; per insegnare in una scuola come quella che abbiamo or ora delineato, così diversa dalle altre scuole del paese, ci vogliono, è evidente, maestri diversi che sappiano quello che sanno e devono sapere gli altri maestri, più qualche altra cosa, e ciò in perfetta armonia. Per insegnare nelle scuole ebraiche ci vogliono in primo luogo buoni ebrei..."La sua presenza a Ferrara fu resa impossibile dalle leggi razziali del 1938, che lo costrinsero ad abbandonare la presidenza del Liceo "Roiti". Venuto a Milano, egli di buon grado accolse la proposta (fattagli all'uscita dal tempio la sera di Kippur del 1938 da Mario Falco) di fondare la scuola ebraica milanese di via Eupili, che fiorì sotto la sua guida ed offrì a molti giovani la forza e la consapevolezza per affrontare le burrasche che di lì a poco si sarebbero scatenate sulle loro teste. Naturalmente il periodo che va dal '38 al '43 fu un periodo fondamentale per la scuola ebraica milanese, che annoverò fra i primi insegnanti personaggi di rilievo nella vita culturale cittadina. Terminata la bufera della guerra di liberazione, Yoseph Colombo fu nominato al Liceo Berchet quale successore di Untersteiner, e, come abbiamo già accennato nel cappello introduttivo a questa stessa pagina, ne restò alla guida fino al 1967. Egli non volle tuttavia abbandonare i suoi amati studi ebraici, ed insegnò lingua e letteratura ebraiche alla Bocconi durante tutto il periodo della presidenza al Berchet.Le testimonianze che seguono daranno un quadro chiaro del carisma che il preside Colombo aveva, e dell'atmosfera che regnava al Berchet sotto la sua presidenza. Prima di presentarvele, una riflessione: la volontà di congiungere un atteggiamento di ortodossia alle tradizioni ebraiche con la più totale apertura al progresso delle scienze umane e alle conquiste della ragione sono certamente alla base del fascino che la sua persona sapeva e poteva emanare. E' così che Colombo giungeva ad affermare la natura perfettamente laica dell'ebraismo ed il conseguente necessario carattere laico di una scuola ebraica, e a maggior ragione di una scuola statale italiana. Una posizione che sicuramente scaturiva da una base storico culturale di perfetta integrazione col patrimonio italiano ed europeo, vissuta in perfetta armonia con le origini ebraiche.http://www.liceoberchet.it/

Rabbino capo Alfonso Arbib ha ricordato che "Colombo aveva una concezione peculiare del suo ruolo e del ruolo dell’educatore», spiega Arbib. «Diceva di applicare un’educazione ebraica, di esercitare l’ebraismo applicato, volendo intendere con ciò che alcuni elementi dell’ebraismo sono valori universali, in qualche modo laici. La laicità di Colombo consisteva appunto nello sviluppo dello spirito critico. I ragazzi non sono vasi da riempire di nozioni, ma piuttosto pianticelle da far germogliare in modo che sviluppino la loro creatività e personalità. È compito dell’educatore trasmettere valori ed esempio personale, seminare e aspettare che i ragazzi fioriscano. L’esercizio dello spirito critico è un valore ebraico e universale».http://www.mosaico-cem.it/

mercoledì 2 marzo 2011


Scienza/ Scoperto primo grattacielo della storia, ha 11 mila anni

È la Torre di Gerico, costruita all'inizio del neolitico
1 mar. (TMNews) - Non solo Gerico sarebbe stata la prima vera città dell'antichità, ma la sua torre potrebbe rappresentare il primo grattacielo della storia. È quanto affermano i ricercatori dell'Università di Tel Aviv (Israele), che, in uno studio pubblicato su Antiquity, hanno dimostrato come i reperti scoperti nel 1952 in Cisgiordania, costituissero i resti del palazzo più antico del mondo. La torre, secondo gli esperti, risale a 11 mila anni fa, e consente, dunque, di identificare Gerico come il primo villaggio edificato, anche se si trattava di un insediamento di cacciatori e raccoglitori, poiché, all'epoca, l'umanità non aveva ancora "scoperto" l'agricoltura. "Riteniamo che la torre sia stata usata per motivare le persone a condurre uno stile di vita in comune", spiega Ran Barkai, che ha coordinato lo studio. Gli esperti ritengono, inoltre, che la struttura indichi le lotte di potere che hanno caratterizzato l'inizio del periodo neolitico e che, per spingere gli abitanti a costruirla, qualcuno abbia sfruttato i loro timori primordiali e le loro credenze cosmologiche. La scelta di costruire la torre nella periferia di Gerico, potrebbe, infatti, essere stata dettata da calcoli astronomici: durante il tramonto del giorno più lungo dell'anno, gli studiosi ritengono che la sua ombra oscurasse l'intero villaggio.


«Ho perso 6 chili per baciare una donna»

Il cigno nero ha costretto Natalie Portman a un training molto duro: ma le ha fatto vincere l'Oscar
Padre israeliano, madre ebrea americana, Natalie Portman è talmente perfetta che a qualcuno risulta antipatica, e questo la dice lunga sul modello genio-sregolatezza cui ormai ci siamo assuefatti. A noi invece Natalie piace molto, proprio perché quando prende un impegno, e può essere la laurea ad Harvard, l’interpretazione di un film o la regia di un corto, vuole raggiungere il miglior risultato possibile. Anche se questo le costa sacrifici e tormenti, fisici e mentali. Com’è successo durante la lavorazione de «Il cigno nero». Esercizi anche quindici ore al giorno per imparare a danzare. E il corpo che ha perso oltre sei chili, «ma in compenso è diventato più forte, mi sono fatta i muscoli».Di lei c’è chi dice che è troppo perfetta.«Magari. Purtroppo nessuno lo è, neanche io. Oggi però è vero che si cerca la perfezione in tutto, nel lavoro, nella bellezza, nel fisico. Il vero problema è quando questo pensiero diventa un’ossessione». Un pensiero che i ragazzi hanno meno rispetto alle coetanee.«Non nel mondo degli artisti, ogni musicista, ogni attore, ogni ballerino vuole raggiungere il risultato migliore. Ma in altri campi, e penso al lavoro, le donne sono arrivate dopo, quindi pagano di più per raggiungere il loro traguardo».Il balletto richiede competizione, anche lei è competitiva? «Soprattutto con me stessa. Con gli altri lo ero un tempo. Quando ti conosci meglio capisci quello che puoi fare. Riconosci che ci sono attrici che interpretano in modo meraviglioso ruoli bellissimi, ma per i quali tu non saresti adatta. Diciamo: ho imparato che c’è lavoro per tutti».Qualcosa l’aveva spinta a cambiare atteggiamento? «No, penso sia stato il tempo, la maturità. Crescendo impari a guardarti con occhi diversi».Lei si è mai sacrificata così tanto per la carriera come Nina, il suo personaggio nel film? «Non direi proprio. Anche se non ho avuto una mia vita per un anno. È stato davvero un ruolo estremo, ma è la prima volta che mi sono data così».Mi parla della scena d’amore con Mila Kunis? «Eravamo un po’ intimidite e ansiose. Io e Mila siamo amiche, volevamo che andasse tutto liscio e non sapevamo se ci sarebbe riuscito. Ma il regista Darren Aronofsky ci ha spiegato molto bene cosa dovevamo fare, così non abbiamo dovuto ripetere all’infinito la scena. Alla fine ci siamo rilassate e aiutate a vicenda e abbiamo anche riso molto, sconfiggendo la pesantezza della situazione».Prima volta che baciava una donna? «Sì. Ma ormai è normale. Nei film, negli spot, sui palcoscenici…».Diventerà regista? Il suo corto Eve aveva avuto successo. «Mi piacerebbe, ho già qualche idea. Ma preferisco non parlarne prima».Lei è stata una supporter di Obama. Che cosa pensa oggi di lui? «Ha dovuto e deve ancora affrontare molte sfide, ma mi sembra che stia lavorando bene. Sono molto orgogliosa del cammino del mio Paese, dove sta andando. Mi rendo conto che ci sono molti problemi, tante imperfezioni, perché l’America è enorme e con realtà diverse, ma abbiamo ritrovato il nostro orgoglio.Conosce il presidente Obama? «L’ho incontrato una volta insieme con altra gente. Mi ha colpito la sua gentilezza e l’intelligenza. Mi ha molto impressionato».Continua a collaborare con la regina di Giordania? «Certo. Sosteniamo entrambe il Finca, che fa progetti di micro finanza nei Paesi non sviluppati. Non ci vediamo spesso, ma lavoriamo per le stesse cause. È una donna molto brillante».Siete amiche? «Non nel senso che si dà comunemente alla parola. Lei è incredibilmente intelligente e saggia. Ha una visione davvero chiara sulle linee da seguire per fare stare meglio il mondo dei meno fortunati. La ammiro molto».Tornando al film, è vero che dietro a ogni artista c’è sempre una madre? «Veramente io penso che ogni artista deve dare addio all’infanzia per diventare attore o ballerino o cantante. C’è un momento in cui devi smettere di fare quello che gli altri vorrebbero da te, devi imparare a esprimerti per quello che sei, per quello che pensi. Questo, almeno per me, è stato importante».Lei ha cominciato a lavorare ancora bambina. I suoi genitori come si comportavano? «Mi hanno sostenuta, ma mai pressata. L’unica cosa che mi dicevano era: devi finire la scuola».A che età è uscita di casa? «A 18 anni, quando sono andata all’università dove sono rimasta fino ai 22. Poi ho preso casa da sola. Ma prima, all’università, stavo in un dormitorio».Che cosa ricorda di quegli anni? «Grandi. È stato uno strano periodo cuscinetto: passi dalla vita protetta in famiglia, dove c’è qualcuno che si occupa di te e ti aiuta, a dover imparare a contare solo sulle tue forze e il tuo senso di responsabilità. Sono convinta che il college sia molto importante proprio perché ti aiuta in questo passaggio».Per non smentire la sua fama di perfettina, all’università voleva essere la prima? «Sfortunatamente c’erano ragazzi molto più brillanti di me, non sono mai stata nella top ten dei bravissimi. Però, è vero, io chiedo molto a me stessa. Credo di averlo preso da mio padre, lui ha sempre lavorato duramente e io sono cresciuta osservandolo e modellandomi a sua immagine».La sua è una famiglia cosmopolita. «Credo sia tipico degli ebrei dell’Europa dell’est. La famiglia di mio padre si era spostata in Israele prima della guerra, erano polacchi che vivevano in Romania. Differente la storia di mia madre, la sua famiglia veniva dalla Russia e dall’Austria, ma è americana da tre generazioni». Quante lingue parla? «Inglese ed ebraico, che è la mia prima lingua perché così ha voluto mia madre. Poi un po’ di francese e spagnolo».David Letterman sostiene che lei è la nuova Audrey Hepburn. «Grazie, ma non mi sembra. Lei è stata così unica, credo che nessuno potrà mai essere come lei». di San Marzano 28 febbraio 2011 http://www.corriere.it/


Quel (piccolo) fiore nel deserto

Da un articolo di Hagai Segal , http://www.israele.net/
Con il mondo così in subbuglio, non si può sfuggire alla necessità di dare un’occhiata all’atlante. Questo è il momento di rinfrescare le nostre conoscenze e di procurarsi informazioni aggiornate circa la regione mediorientale. Se si vuole capire appieno la situazione in Libia, bisogna innanzitutto sapere che la distanza che corre fra Tripoli e Bengasi non è quella che c’è fra Gerusalemme e Tel Aviv, e nemmeno quella fra Haifa e BeerSheva. La distanza fra le due città libiche è circa il doppio dell’intera lunghezza di Israele, dal che si capisce che la sfida di imporre l’ordine, laggiù, risulta particolarmente ardua.La Libia è un paese enorme. Se non risulterà divisa fra sostenitori ed oppositori di Gheddafi, continuerà ad occupare una superficie di un milione e 760mila chilometri quadrati (l’Italia ne occupa 300mila): vale a dire che la Libia ha una superficie 63 volte più grande di quella della Terra d’Israele (comprese le regioni di Giudea e Samaria o Cisgiordania, il Golan e Gerusalemme est).Una rapida ricerca su internet permette di scoprire che in questo enorme territorio libico vivono 6,5 milioni di persone, cioè decisamente meno della popolazione che vive sulla Terra d’Israele (più di 7 milioni e mezzo nello stato d’Israele; più di 10 milioni contando anche i Territori). Tale scoperta dovrebbe ispirare alcune considerazioni filosofiche in qualunque persona che persegue la giustizia: come può essere che l’attenzione di tutto il mondo sia tanto focalizzata su questa nostra terra, minuscola e sovraffollata, mentre una manciata di libici si sono presi una fetta così grande delle terre emerse? Com’è che noi israeliani veniamo dipinti dai mass-media internazionali come avidi di territorio, mentre nessuno pare avere alcuno scrupolo anticolonialista nei confronti del colonnello Gheddafi?A proposito di confini, quelli della Libia sono per la maggior parte linee perfettamente rettilinee: cosa che suscita il sospetto che siano stati tracciati sulla carta geografica in modo del tutto arbitrario. I generosi periti che delinearono tali confini nel secolo scorso evidentemente non perseguivano nessun tipo di giustizia storica: ciò a cui miravano era solo convenienza geometrica e, naturalmente, il petrolio.Quei periti furono molto generosi anche coi paesi vicini. L’Egitto occupa circa un milione di chilometri quadrati (35 volte le dimensioni della Terra d’Israele), l’Algeria due milioni e 400mila chilometri quadrati (esattamente dieci volte di più della Gran Bretagna). Noi, dal canto nostro, abbiamo a disposizione meno di 28.000 chilometri quadrati fra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. A quanto pare la “Grande Israele” è un territorio davvero minuto. In Medio Oriente, solo il Libano e alcuni emirati del Golfo riescono a essere più piccoli di Israele.Se ogni stato arabo potesse vantare una sua unicità culturale (strettamente legata al suo specifico territorio e ai suoi confini), potremmo comprendere la necessità di territori così estesi: in fondo, si sa, una popolazione ha bisogno di spazio per realizzare appieno la propria cultura… Tuttavia, come in questi giorni si può vedere tutte le sere in televisione, le nazioni arabe sono incredibilmente simili fra loro. I dimostranti nel Bahrain intonano lo slogan “O Manama, noi ti libereremo con il nostro spirito e il nostro sangue”, mentre i dimostranti in Libia intonano lo slogan “O Bengasi, noi ti libereremo con il nostro spirito e il nostro sangue”. Persino i gesti tirannici dei governanti sono molto simili, per non dire di una certa affinità delle masse per il linciaggio.Qui in Israele abbiamo uno stile totalmente diverso, e una cultura nazionale che è chiaramente distinta. Eppure, fra tutti popoli, il mondo pare ansioso di ammassare e comprimere proprio il nostro, nella minuscola area a ovest di Qalqiliya. In realtà il mondo sta iniziando a capire che il piccolo Israele è il suo unico alleato affidabile, nel cuore di questa regione disastrata; ma continua ancora a maltrattarci per via di un’antica consuetudine storica.Evidentemente, dire addio a Gheddafi è più difficile di quanto non sembri.(Da: YnetNews, 25.2.11)


Atr, Pomigliano «vola» in IsraelePer la prima volta un aereo turbprop

Israir Airlines opziona due aerei utilizzati sulle rotte interne: commessa da 35 milioni di dollari
NAPOLI— È la prima volta in assoluto che l’industria aeronautica italiana, e in particolare quella made in Campania, sbarca sul mercato civile israeliano. Ed è anche la prima volta che una compagnia aerea israeliana dota di un aereo turbprop (con motore ad elica). Un traguardo raggiunto grazie all’acquisto, da parte di una delle più grandi compagnie aeree del Paese mediorientale, la Israir Airlines, di due esemplari di Atr 72-500, l’aereo regionale della joint venture paritetica tra Alenia Aeronautica ed Eads, realizzato quasi totalmente nello stabilimento di Pomigliano d’Arco. Un portavoce della compagnia aerea israliana ha annunciato l’acquisto dei due velivoli dicendo che «saranno consegnati in primavera e saranno utilizzati sulle rotte interne e soprattutto quelle sul Mar Rosso, così come per le destinazioni nella regione del Mediterraneo». Si tratta di una commessa di 35 milioni di dollari. Finora gli unici costruttori ad aver venduto degli aerei ad Israir erano stati i due colossi leader mondiali Boeing ed Airbus. L’acquisizione di un cliente in Israele per Atr è fondamentale poiché apre un mercato ritenuto molto interessante e che potrebbe portare ulteriori vendite. E più aerei di Atr si vendono, più lavoro arriva nello stabilimento di Pomigliano, ormai quasi interamente dedicato alla realizzazione della fusoliera proprio dell’aereo regionale nato dalla join venture di Alenia Aeronautica e Eads. I velivoli Atr infatti nascono proprio nello stabilimento Alenia di Pomigliano. Nelle ultime 48 ore, peraltro, sono stati venduti da Atr altri 33 velivoli a due prestigiose compagnie. La prima commessa è di 18 velivoli Atr 72, venduti alla compagnia australiana Virgin Blue Group nell’ambito dell’alleanza strategica recentemente raggiunta con Skywest airlines. Il secondo contratto è stato firmato da Atr ieri e prevede la vendita di 15 esemplari del 72-500 in configurazione a 72 posti alla compagnia indonesiana Wings Air (della Lion Air) per un valore che oscilla tra i 350 ed i 400 milioni di dollari. Nel 2009 Atr e Lion Air avevano finalizzatoun contratto per l’acquisto di 15 Atr 72-500, con opzione per altri 15 velivoli. L’accordo di oggi, reso possibile grazie alla significativa crescita di mercato di Wings Air e Lion Air, rappresenta la conversione dell’opzione per quei 15 velivoli porta a 30 gli Atr in servizio presso la Wings Air. In proposito Filippo Bagnato, amministratore delegato di Atr, ha dichiarato: «Stiamo consolidando una partnership forte a proficua con Lion Air e Wings Air e siamo felici di essere testimoni del crescente successo di queste importanti aerolinee nel Sud-Est asiatico, successo che sta chiaramente favorendo anche la nostra crescita: circa un terzo delle vendite degli ultimi anni infatti proviene da questo mercato; sono già circa 130 i velivoli Atr in servizio attivo e abbiamo ordini fermi per altri 20 aerei in quest’area. Siamo felici che importanti compagnie aeree in Asia scelgano Atr e godano di prestazioni imbattibili non solo dal punto di vista economico». Un plauso ai successi di Atr arriva dal sindacato metalmeccanico campano. Giovanni Sgambati, leader della Uilm Campania tiene a sottolineare infatti che «il successo commerciale dell’Atr anche per il prossimo biennio è in linea per contenere le difficoltà che abbiamo dovuto registrare con l’accordo della mobilità di dicembre. Mentre proprio è in atto questo successo è necessario che la Regione, il Governo siano in condizione di sostenere lo sforzo di Finmeccanica per pensare al futuro. In un settore ad alta tecnologia come l’aeronautica, Alenia deve essere messa in condizione di costruire con un partner un futuro in cui la Campania possa svolgere il ruolo d’eccellenza che gli compete». Paolo Picone28 febbraio 2011,http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/


L'Israel Credit Cards-Cal paga cara la scelta "etica"

Lunedì 28 Febbraio 2011 http://www.focusmo.it/
Le entrate della Israel Credit Cards-Cal Ltd. (Visa) sono diminuite del 20 per cento nel corso del 2010, dopo che la compagnia ha deciso di non consentire più l’utilizzo delle proprie carte di credito per il pagamento di gioco d’azzardo e acquisto di pornografia on line.Nel 2010 le entrate derivate da attività in internet sono colate a picco, diminuendo del 72 per cento; in totale, lo scorso anno la società ha registrato profitti per 215 milioni di shekel, circa 43 milioni di euro, contro i 249 milioni del 2009, quasi 50 milioni di euro. Escludendo il guadagno realizzato con la vendita di alcuni pacchetti di azioni, le perdite nette sono pari al 20 per cento: un risultato peggiore rispetto a quello del 2008. «Abbiamo impiegato buona parte del 2010 per cercare di fare fronte alla crisi», ha commentato l’amministratore delegato di Israel Credit Cards (Icc). Malgrado questo, le carte di credito Icc continuano ad essere le più costose per i clienti israeliani: uno studio della Banca d’Israele ha rilevato che i clienti Icc pagano per le spese mensili 2.5 volte di più rispetto alla compagnia più economica del Paese. Icc addebita anche gli interessi più alti in assoluto per il credito non bancario, e la percentuale continua a salire: dall’11.6 per cento del 2009 all’11.9 per cento nel 2010.



Sinai, Israele bombarda jeep carico di banconote. Milioni di dollari in fumo

Fonti palestinesi parlano di un raid israeliano nella zona di Rafah contro un jeep con a bordo due miliziani di Hamas rimasti feriti. Il veicolo trasportava armi e milioni di dollari in contanti. Quando gli uomini dell'organizzazione sono giunti sul posto per soccorrere i compagni e recuperare ciò che restava della merce, hanno trovato più della metà del carico già incenerito. Il confine tra Egitto e Israele nel Sinai resta una zona di grande tensione. Infatti da sempre è qui che si pratica il contrabbando di qualsiasi tipo, ma soprattutto armi.L'area è molto sorvegliato sia da forze israeliane che egiziane, ma dopo la caduta del regime di Mubarak, l'esercito egiziano ha ben altro da fare all'interno del paese, e si occupa meno del Sinai.28-02-2011 http://www.net1news.org/


L'Iran attacca Londra "Ai Giochi logo sionista"

Dura lettera al Cio: potremmo boicottare le Olimpiadi del 2012. Replica degli organizzatori: «Nessun significato nascosto»
GIULIA ZONCA, 01/03/2011, http://www3.lastampa.it/
Mai un logo era stato tanto contestato prima. Il simbolo di Londra 2012, un innocuo marchio a zig zag con l'unico difetto di non essere particolarmente affascinante è da più di tre anni il bersaglio di ogni polemica. L'hanno giudicato bruttino, considerato responsabile di un'ondata di attacchi epilettici, poco rispettoso nei confronti della brillante città di Londra degna di essere meglio rappresentata e ora è accusato di razzismo.L'Iran ha scritto una lettera al Cio e una al Comitato organizzatore per lamentarsi del messaggio che il logo conterrebbe: «Sfortunatamente dobbiamo constatare che le prossime Olimpiadi non vogliono tenere in considerazione i valori dei Giochi. L'uso della parola Zion è evidente e deliberato. Consideriamo quella scritta un attacco aperto e se non verrà modificata potremmo decidere di non partecipare alle Olimpiadi. E non saremo il solo Paese a farlo». Firmato Mohammad Aliabadi, capo del comitato olimpico iraniano e la protesta è accompagnata da una perizia che evidenzia le lettere e dimostra che Zion è la sola parola che tutta una parte di mondo riconosce dentro quel marchio. In realtà il logo è fatto di numeri che compongono l'anno 2012, ma basta il fatto che in effetti ci si può tranquillamente leggere altro a creare un problema.Zion (Sion) è il termine biblico per Gerusalemme, inneggia al movimento sionista e secondo l'Iran, stato islamico che non riconosce Israele, sarebbe una chiara affermazione: «Significa che Londra sostiene Israele». Il comitato reagisce nel modo più razionale: «Quel logo non è certo comparso oggi, lo abbiamo inaugurato nel 2007 ed è assurdo che un'obiezione di questa portata sia sollevata solo adesso». Il Cio, imbarazzato dalla grana, appoggia il comitato promotore, «ci hanno sempre detto che quei segni significano 2012 e non hanno nessun altro valore», l'Iran ribadisce che si tratta di scuse e che il sottotesto «neanche troppo subliminale, è lampante ed è un attestato di parzialità. Un atto rivoltante».Non è la prima volta che l'Iran usa lo sport per prendere le distanze da Israele: l'anno scorso, ai Mondiali di sollevamento pesi, l'iraniano Hossein Khodadadi si è rifiutato di stringere la mano al collega israeliano Sergio Britva e nonostante ciò qualcuno sostiene che il poveraccio sia stato allontanato dalla federazione per il solo fatto di essergli stato vicino durante la cerimonia di premiazione. A Pechino 2008, il nuotatore iraniano Mohammad Alirezaei ha evitato di nuotare le batterie dei 100 rana per non condividere le corsie con l'israeliano Tom Beeri. Niente squalifiche o sanzioni grazie al certificato medico e il Cio, che non vuole prendere posizione nella faida, ha fatto finta di crederci. Così come ha accettato le scuse del capo delegazione iraniano ai Giochi olimpici giovanili di Singapore: ritirati dalla gara di taekwondo (contro Israele) «per un improvviso attacco di mal di pancia del nostro atleta, portato via dall'albergo in ambulanza». Per non parlare del grande sacrificio di Arash Miresmaeili, due volte campione del mondo di judo, eroe iraniano e gran favorito ai Giochi del 2004, sparito dal tappeto quando ha capito che avrebbe dovuto combattere contro l'israeliano Ehud Vaks. Cancellato dai turni eliminatori e addio sogni di gloria. Gli è pesato tanto che ha subito scelto la via del martirio: «Per la causa». Poi ha negato, tentato la retromarcia, ha farfugliato di essere stato frainteso. Stavolta non siamo neanche arrivati alle gare, la contestazione parte da subito e non è velata ma diretta: «Il logo è rivoltante». Londra si limita alla risposta ufficiale, anche se è chiaro che si sentano tirati in mezzo e che non vogliano dal Cio pressioni per improvvisi cambi. Il simbolo del 2012 è costato 400 mila sterline e non ci sono soldi da buttare e in più per la prima volta i londinesi hanno trovato un motivo per difendere quella scritta fino a qui detestata. Non si lasciano dare dei razzisti e sostengono la «libera espressione». Molti dei cittadini che hanno firmato la petizione per modificare il logo «troppo brutto» sono pronti a scendere in piazza per proteggerlo.


DIOR CHE CERVELLO DI GALLIANO! - LO STILISTA SI FA QUALCHE BICCHIERE DI TROPPO E COMINCIA A INSULTARE UNA COPPIA IN UN CAFFÈ PARIGINO: “SPORCA EBREA, DOVRESTI ESSERE MORTA” E “BASTARDO DI UN ASIATICO, TI UCCIDERÒ”. ARRESTATO E DENUNCIATO - DIOR LO SOSPENDE DA DIRETTORE ARTISTICO: “TOLLERANZA ZERO NEI CONFRONTI DI OGNI ATTEGGIAMENTO ANTISEMITA O RAZZISTA” - DONATELLA VERSACE LO DIFENDE: “È UNA PERSONA BUONA”…

(ANSA) - Lo stilista britannico John Galliano, genio creativo della maison Dior, è stato arrestato ieri sera a Parigi per "violenze leggere" ed "insulti a carattere antisemita". Galliano, che si trovava in stato di ebbrezza, è stato poi rilasciato su richiesta del tribunale. Secondo i primi elementi, il noto stilista avrebbe avuto un diverbio con una coppia mentre si trovava in un caffé del centro della capitale francese.Fonti della polizia indicano che sarebbe stato lo stesso Galliano ad insultare i due, per motivi ancora non chiari. La polizia è intervenuta rapidamente e lo stilista è stato posto in stato di fermo. Galliano è risultato positivo all'alcol-test con 1,1 mg/l di alcool nel sangue. La coppia aggredita ha sporto denuncia contro di lui.(ANSA) Lo stilista britannico John Galliano è stato momentaneamente sospeso dalle sue funzioni di direttore artistico della maison Dior. Lo riferisce la casa di moda in un comunicato. Lo stilista britannico è stato fermato ieri sera a Parigi in stato di ebbrezza dalla polizia e denunciato per insulti antisemiti e leggere violenze.In un comunicato, il direttore generale della maison Dior, Sidney Toledano, ribadisce la sua "politica di tolleranza zero nei confronti di ogni dichiarazione o atteggiamento antisemita o razzista". Lo stilista John Galliano resterà dunque sospeso dalle sue funzioni di direttore artistico "nell'attesa dei risultati dell'inchiesta". Galliano è stato fermato ieri sera dopo aver aggredito e insultato una coppia in un caffé del centro della capitale.Secondo i due, sentiti oggi dalla radio Europe 1, lo stilista, ubriaco, avrebbe gridato: "sporca ebrea, dovresti essere morta" e "bastardo di un asiatico, ti ucciderò". Questi insulti sono stati smentiti dal legale di Galliano, Stephane Zerbib, per il quale lo stilista non ha mai pronunciato queste parole ed alcuni testimoni possono confermarlo.(ANSA) - "La sospensione di Galliano è un atto dovuto, ma un po' esagerato": così Donatella Versace, incontrando la stampa prima della sfilata della sua griffe, commenta la sospensione di John Galliano da Dior voluta dal gruppo Lvmh dopo l'arresto del designer per insulti antisemiti. "Il razzismo è tremendo e lo condanno, ma non penso che Galliano ci abbia pensato, è una persona di una bontà e di una serietà note - dice la stilista -, è un grande creatore che ha dato tanto e ha tanto da dare ma ciò non giustifica nessun tipo di razzismo". Comunque, conclude Donatella Versace, "per come lo conosco io Galliano non è così".1 marzo 2011


Mar Morto

Voci a confronto

E’ una fase di attesa per la rivolta libica. Gheddafi un po’ tratta un po’ minaccia (Caprara sul Corriere) un po’ spara (Del Re su Repubblica) forse deve andare in esilio o così vuole l’America (Rampini su Repubblica), che però continua a cullarsi nell’illusione obamiana di “sostenere la democrazia, non imporla (Massimo Gaggi sul Corriere), sicché non sembra aver ancora deciso davvero di intervenire (Rampino sulla Stampa, Fabbri sul Riformista) e ci sono solo ipotesi su come potrebbe farlo (Olimpio sul Corriere). Nel frattempo agiscono solo le sanzioni economiche (Zatterin sulla Stampa, Bonini su Repubblica) e la pressione diplomatica (Guaita sul Messaggero). Fra le varie ipotesi che si fanno, qualcuno parla addirittura di un ritorno della monarchia (Ferrari sul Corriere). Interessante l’articolo di Carlo Panella sul Foglio che denuncia l’”ambiguità” della rivolta, che sarebbe guidata dai “vecchi soci” di Gheddafi.Val la pena di registrare nel frattempo la solita incoerenza, per non dire di peggio, di intellettuali e politici: viene fuori che Anthony Giddens, il grande guru della sinistra europea, ha scritto un articolo grondante lodi per Gheddafi ( Marino sul Giornale). Giddens è del resto il luminare della famosa London School of Economics, che è uno dei centri intellettuali della lotta a Israele, finanziata proprio da Gheddafi (notizia siglata Al. Carl. su Libero). Del resto Giddens è in buona compagnia, visto che è l’Onu stessa ad aver dichiarato che Gheddafi difendeva i diritti umani (Casotto sul Riformista): ma sappiamo tutti cosa sia davvero l’Onu, quanto imbevute di ideologia islamista e terzomondista le sue istituzioni. E già Romano Prodi, di cui si ricordano le visite al presidente sudanese Bashir ricercato dall’Onu per genocidio e a Ahmadinedjad, pontifica in un un’intervista a Martini sulla Stampa che bisogna ammettere i paesi del Maghreb nell’Unione Europea (oltre alla Turchia, è ovvio).Sono serie anche le varie situazioni di protesta nel mondo islamico. In Iran è confermato che il regime ha rapito i capi della rivolta di due anni fa Mussavi e Karrubi, finora intoccabile in quanto alti chierici (nota su Avvenire, Zecchinelli sul Corriere); in Yemen si starebbe cercare di passare a una “fase egiziana” (Ranieri sul Foglio) e tutta la situazione farebbe sentire “isolato” il regno dell’Arabia Saudita (redazione del Foglio), dove per l’11 marzo sono progettate manifestazioni (Giorgio sul Manifesto). Meotti, sempre sul Foglio, traccia un ritratto preoccupante di Abu Mussa, l’ex segretario della Lega araba che potrebbe diventare il nuovo leader egiziano.Per gli amanti della moda, ora c’è un video che “incastra” il celebre stilista Galliano al suo schifoso antisemitismo (notizie sulla Stampa e su Libero).Ugo Volli1 marzo 2011http://www.moked.it/


fiume Giordano

Ehud Barak: “Dalla Siriasegnali di volontà di accordo”

Gerusalemme, 28 febbraio 2011, http://www.moked.it/
"I siriani ci stanno segnalando in più modi che vogliono arrivare a un accordo”, ha affermato il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak in un'intervista alla radio pubblica. “Io penso che noi dobbiamo verificare ogni possibilità e se il presidente siriano (Basha Assad) è serio troverà che anche noi siamo un partner serio". Il premier israeliano Benyamin Netanyahu, dal canto suo, è scettico sulla serietà della volontà di pace di Assad. Nella stessa intervista Barak, a proposito della situazione in Egitto, ha detto di non vedere la trasformazione di questo paese in un regime islamico radicale sul modello iraniano e di non ritenere in pericolo il trattato di pace israelo-egiziano.


Israel University Day - Scegliere con Roger Abravanel

Perché è importante studiare in un'università eccellente? Che cosa è un'università eccellente? Come interpretare l'opzione dell'università in Israele rispetto ad altre alternative? Si basa su questi tre interrogativi la sfida competitiva che gli studenti devono cogliere nella scelta della università da frequentare dopo il liceo. A dirlo è Roger Abravanel (nella foto assieme alla vicepresidente UCEI Claudia De Benedetti), noto consulente ed economista italiano che ha lavorato per 35 anni nella prestigiosa società McKinsey come consulente di aziende italiane e multinazionali in Europa, America ed Estremo Oriente, intervenuto all'Israel University Day, che si è svolto all'Istituto Pitigliani e che è proseguito a Milano.Abravanel che attualmente è consigliere di amministrazione di varie aziende e advisor di fondi Private Equity in Italia e all'estero, dal 2008 è editorialista per il Corriere della Sera ed è consigliere del ministro della Pubblica Istruzione, Maria Stella Gelmini, insieme alla quale nel luglio 2010 ha varato il progetto denominato "Piano nazionale per la qualità e il merito" che prevede per l'anno scolastico 2010/2011 la valutazione degli studenti delle scuole medie italiane e la qualità dell'insegnamento”. Perché consiglierebbe di scegliere un'università israeliana? Secondo me c'è un solo parametro che conta: andare in un'ottima università è molto importante per il futuro degli studenti e le università israeliane sono delle ottime università, dove i giovani laureati ricevono il giusto mix di una buona preparazione con la capacità di saper raccogliere e rispondere alle sfide della vita. I giovani israeliani giungono infatti all'università più temprati dall'esperienza del militare questo rappresenta una grande possibilità di confronto per gli italiani.Che cosa è allora che fa di una università, una buona università... Lo riassumerei in due parole: top teachers, top students. Oggi le grandi università sono grandi perché hanno professori eccellenti, sanno fare una buona didattica e insegnano a studenti eccellenti. Fare una buona didattica significa insegnare la capacità di ragionare, di lavorare insieme.Quale è la situazione italiana? In Italia mercato del lavoro non premia eccellenze ecco perché giovani sono scoraggiati nei confronti dell'università. In America chi ha conseguito un voto mediocre alla laurea guadagna di meno di chi ha conseguito un buon voto e ancora di meno di chi ha un voto eccellente. In Italia questo non avviene affatto. Nel nostro paese ci sono cinque o sei università di livello, il problema non è tanto la qualità accademica quanto la didattica che non è adeguata a insegnare “ life skills”, la capacità di risolvere i problemi. La didattica italiana è antica, poco interattiva, la nostra scuola non insegna a dibattere. Sono invece molto irritato nei confronti degli israeliani perché sono pessimi nel marketing e quindi anche se le loro università sono eccellenti non sono menzionate fra le migliori nel mondo.Che cosa consiglierebbe allora a uno studente che si affaccia al mondo universitario Darei sostanzialmente tre consigli: primo capire che scegliere un'università eccellente è importante per il suo futuro, secondo, che in una buona università si va anche per imparare a essere uomini e donne capaci di affrontare la vita, terzo nella scelta dell'università non pensare a quella più vicina a casa, ma prendere in considerazione anche altre possibilità all'estero, in Israele, ma anche in America o in Cina...Lucilla Efrati, http://www.moked.it/

Gli strali divini son sulla tua testa

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