venerdì 15 gennaio 2010


Yael Hersonski
A Movie Unfinishes, la verità sul Ghetto di Varsavia

Non un film ispirato alla tragedia del ghetto di Varsavia, come Il Pianista di Roman Polanski, ma immagini di vita in presa diretta. Questo rappresenta il documentario A Movie Unfinished della giovane regista israeliana Yael Hersonski che verrà proiettato per la prima volta in esclusiva il 25 gennaio in occasione del Sundance Festival 2010. Un documentario che ha il merito di voler dipanare il groviglio e le molteplici false verità riguardanti l’operato del regime nazista, che in modo meticoloso ha tentato di documentare la vita del ghetto di Varsavia dissimulando totalmente la realtà in favore di una bieca propaganda. Il lavoro della Hersonski risulta ancora più cruciale all’indomani delle dichiarazioni del registra americano Oliver Stone che ha lavorato di recente a un film documentario sul Novecento per la tv via cavo Showtime. Un corso di storia in dieci ore sul periodo compreso tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale dal quale emergono in una luce del tutto nuova le figure di Adolf Hitler e Josip Stalin, il primo capro espiatorio di un disegno più ampio, il secondo considerato un eroe, entrambi vittime di una lettura convenzionale della storia.La nonna materna della Hersonski visse nel ghetto di Varsavia ed è forse lei la motivazione che ha spinto la regista a realizzare il documentario. Quando la nonna morì, Yael volle infatti riscoprire una parte della sua vita di cui non aveva mai avuto il coraggio di chiedere: “Anche se non l’ho trovata (nel filmato), solo il fatto di sapere che lei sarebbe potuta essere dall’altra parte della strada o due metri fuori dall’inquadratura, mi ha dato la forza per lavorare su immagini da un così alto impatto emotivo ”.Due mesi prima dell’operazione di riassetto del ghetto di Varsavia, avvenuta tra il luglio e il settembre del 1942 con la conseguente deportazione di più di 300 mila persone mandate a morire nel campo di concentramento di Treblinka, Goebbel, ministro della propaganda, decise di inviare un team di operatori e tecnici affinché girassero un documentario propagandistico che sostenesse la causa antisemita e il merito dell’operazione. La miseria per le strade in contrasto con l’orribile teatrino inscenato dai nazisti: scene di banchetti e balli, anziani ebrei con i vestiti della festa e la barba alla Vandyke e giovani signorine pesantemente truccate, il tutto ben orchestrato e coadiuvato da centinaia di attori ariani assunti per i ruoli chiave. La realtà che traspare dietro la menzogna, è la coercizione dei fucili puntati, dei corpi ignorati e abbandonati per le strade.A Film Unfinished si occupa di ricostruire quei giorni di riprese a partire dalle testimonianze dei sopravvissuti, quattro uomini e una donna, dalla testimonianza di uno dei cameraman e dai diari degli ebrei del ghetto, nascosti sottoterra e rivenuti nel dopoguerra. Inoltre nel 1998 sono state recuperate in una base dell’aeronautica militare americana alcune scene tagliate che mostrano la troupe nazista del film in azione. A Film unfinished, poiché dopo trenta giorni di riprese, nel maggio del 1942, il soldati vennero richiamati e il film di 62 minuti rimase incompiuto e senza traccia audio.Michael Calimani, http://www.moked.it/


soldatessa israeliana

Per due settimane circa 1600 militari americani sono stati ospitati in Israele per essere addestrati alla gestione di apparati antibalistici di ultima generazione, realizzati in collaborazione dai due Paesi e destinati a proteggerli entrambi da future minacce di attacchi missilistici.
MaurizioMolinari,giornalista, http://www.moked.it/


Mayor of Jewish quarter "Muhktar" Weingarten being escorted to Arab Legion headquarters by Arab soldiers. Jerusalem. June 1948

Il commento Così Israele ha trasformato gli immigrati in una risorsa

Nel luglio del 1967 Moshé Dayan vincitore della Guerra dei sei giorni si trovò con un territorio sottoposto al controllo militare sei volte superiore a quello dello stato di Israele. Il Sinai egiziano e le alture del Golan, siriani spopolati dalla guerra non presentavano nell'immediato problemi economici. A Gaza e in Cisgiordania, invece, più di un milione di contadini palestinesi dipendevano dalla coltivazione di meloni e angurie, sviluppata negli anni precedenti per soddisfare, tramite la Giordania il mercato saudita e degli Emirati Arabi, meloni che ora marcivano nei campi. Dayan doveva trovare una soluzione rapida ma che non sembrasse imposta dal nemico. Gliela suggerì un israeliano di Haim Israely, in seguito chiamato dal ministero dell'Agricoltura americano per diffondere nuove culture nelle zone depresse del Mississippi.«Prima dei meloni ci dovevano essere altre culture - disse a Dayan -. Chiediamo ai vecchi dei villaggi quella che rendeva di più». Si scopri che era la coltivazione del sesamo, indispensabile alla produzione di due cibi locali, la tehina e la halawa. Per diffondere rapidamente il ritorno a una cultura andata quasi perduta, fu aumentata la dogana sull'importazione del sesamo facendone salire il prezzo; un proprietario terriero palestinese, grosso notabile della zona, si dichiaro disposto a tornare a coltivare il sesamo con un contratto di vendita garantito. Il suo esempio dilagò a macchia d'olio dando, unitamente ad altre innovazioni agricole, il via alla rivoluzione agricola della Palestina, contribuendo a far crescere il reddito nelle zone occupate in maniera esponenziale sino allo scoppio della prima e seconda «intifada».Di questa rivoluzione nessuno parlò nonostante il modello potesse essere applicato ovunque alla soluzione di problemi di integrazione di immigrati, si fondava su quattro punti: a) l'integrazione (di esseri umani o di nuove tecniche) comporta cambiamento; b) la diffusione del cambiamento avviene per imitazione; c) l'imitazione richiede legittimazione; d) i legittimatori sono coloro che si fanno «notare» e sono ritenuti credibili. Nelle società tradizionali - e sino a non poco tempo fa anche in quelle sviluppate - il personaggio credibile è sempre stato il «notabile». Membro di una classe che all'inizio del secolo passato si organizzava ancora in partiti politici «borghesi» (quello radicale in Francia e liberale in Italia), ma che in Europa è stata spazzata via dal fascismo, dal socialismo e dal pluralismo e in molti paesi emergenti dall'anticolonialismo.Il notabile tuttavia esiste sempre in ogni gruppo; basta volerlo riconoscere. È la chiave per il successo dell'integrazione dell'immigrato. In molte parti d'Italia è espressa disordinatamente dal pizzaiolo diventato proprietario di ristoranti, dal muratore diventato capomastro e poi piccolo imprenditore edile; dal manovale diventato giardiniere e cosi via. Ma l'esempio resta isolato perché, non solo per inerzia intellettuale ma perché se si sa tutto sulle cause dell'emigrazione, una teoria generale della integrazione non esiste. I due modelli, quello americano (pentola a pressione) e francese (lingua, laicismo, repubblicanesimo) sono falliti. Si preferisce affidare alla polizia il compito di mantenere l'ordine lasciando il migrante nelle mani di «notabili» emersi per violenza o per conoscenze (o misconoscenze) religiose spesso ostili alla integrazione.È significativo confrontare gli aranceti di Rosarno carichi di frutti non raccolti a causa della la fuga degli immigrati africani con gli aranceti israeliani, anch'essi affidati alle cure di manodopera di origine africana o asiatica con migliaia di operai stranieri che bussano alle porte dello Stato per essere ammessi. Ma di Israele si preferisce parlare solo per la guerra, per il fanatismo degli ortodossi, per i muri anti terrorismo denunciati dal Tribunale dell'Aia ma imitati in silenzio dall'Egitto, dall'Arabia Saudita, dal Pakistan ecc. Sulla riforma agricola in Palestina, sulle tecniche che hanno permesso a una società forte di 600mila anime nel 1948, di accogliere tre milioni di migranti si preferisce tacere. http://www.ilgiornale.it/, 14 gennaio 2010



Quesiti scientifici


Adesso che Oliver Stone ha chiarito il tragico destino di Adolf Hitler, svelandone il ruolo di vittima di un disegno ben più ampio del semplice nazismo, rimane da chiarire cosa sia una vittima, cosa ampio, e poi se Stone possieda una mente o si avvalga di una semplice lattuga. Il Tizio della Sera, http://www.moked.it/


Mina Bern

Mina Bern (1911-2010), gran signora del teatro yiddish

Attrice e cantante in lingua yiddish fra le più amate dagli appassionati di teatro, è morta a Manhattan, all'età di novantotto anni, Mina Bern.Nata nel lontano 1911 a Bielsk Podlaski, in Polonia, Mina inizia a recitare sin da giovanissima: la sua passione sono gli sketch satirici ed i piccoli monologhi. Appena i nazisti attaccano il paese, scappa in tutta fretta in Unione Sovietica con la figlia. Ci resta per qualche anno, continuando a portare sul palco le sue doti di cabarettista, particolarmente apprezzate in quei tempi così difficili. Poi, in modo un po’ avventuroso, emigra in quello che a breve sarebbe diventato lo Stato di Israele. Nel 1949, subito dopo aver visto il sogno di Theodor Herzl trasformarsi in realtà, si trasferisce a New York, dove diventa una delle star dell’Yiddish Theatre, storico edificio in cui nel passato si erano esibiti alcuni grandissimi artisti, come il premio Oscar Paul Muni e il mitico Jacob Adler. Ma quando Mina arriva nella Grande Mela, questo teatro situato nella Second Avenue ha considerevolmente perso di appeal, soprattutto perché l’yiddish non è più una la lingua tanto conosciuta all’interno della vasta comunità ebraica newyorkese. Tuttavia, lei e il suo futuro marito Ben Bonus riescono a rivitalizzare un ambiente in grande crisi e a riportarlo ai fasti di un tempo. E lo fanno con grande impegno ed umiltà. Oltre a recitare, infatti, spesso si occupano di disegnare gli scenari, cucire i vestiti e talvolta vendono persino i biglietti al botteghino. Perché, come ha raccontato una volta Mina, quella di salvare l’yiddish dall’oblio era per entrambi “una missione”. Che difatti li ha portati ripetutamente in tournee negli Stati Uniti, ma anche in Canada e America Latina, ovunque vi fosse la possibilità di proporre questa affascinante lingua e cultura “a persone non abituate alla sua magia”. Di Mina era nota soprattutto la sua versatilità, che le permetteva, come scrive il New York Times, di “recitare la parte della donna un po’ civetta in una scena, quella della ficcanaso in un’altra e quella dell’attempata madre che i figli non vogliono più sotto il tetto familiare in un’altra ancora”. Merito anche, parola dell’amica e collega Nahma Sandrow, dei “suoi intensi occhi blu e del suo modo di recitare così innocente, anche quando si trattava di interpretare personaggi alquanto irritanti”. Insieme al marito, ha portato a Broadway alcuni show di grande successo, come Let’s Sing Yiddish e Light, Lively and Yiddish. Gli spettatori gradivano in particolare il duetto Vos Dergeystu Mir Di Yorn? (Perché stai rovinando i miei anni?) con il quale i due salivano sul palco. La passione per il teatro non ha mai abbandonato Mina, che ha continuato a recitare fino a pochi mesi fa. Nel 2002, ad esempio, era stata la signora incaricata di occuparsi del mikvé nel musical Yentl, mentre nel 2005 aveva interpretato se stessa in uno show autobiografico. Non disdegnava neanche il cinema, tanto da prendere parte ad alcuni film prodotti ad Hollywood, tra cui Avalon e I’m Not Rappaport. Il suo ruolo? L’anziana signora proveniente dall’Est Europa.Adam Smulevich http://www.moked.it/


Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo

di Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein edito da Chiarelettere e da oggi in libreria, così come il suo sottotitolo, è un “libro scomodo” che si legge con foga e con rabbia. Perché non è solo la storia del coraggio che hanno avuto in pochi, ma è soprattutto la riflessione su una vicenda dopo, a guerra conclusa, che è più istruttiva e di quella del gesto eroico o dell’atto esemplare compito in tempo reale durante la guerra.Ma andiamo con ordine. Il libro è una biografia di Giorgio Perlasca (1910 -1992), l’uomo che si inventa un incarico, un’organizzazione con una struttura operativa di fortuna, salva migliaia di persone nell’inverno 1944-1945 a Budapest nelle ultime settimane del dominio delle “Croci frecciate” i collaborazionisti nazisti che governano l’Ungheria dall’estate 1944, a differenza di altre ambasciate che avevano la stessa possibilità di quella spagnola di agire (Città del Vaticano, Svezia, Portogallo) e che pure non agirono o ebbero dei conflitti interni. Ma soprattutto Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo è una riflessione sull’“ingratitudine”.Nato nel 1910, giovane entusiasta fascista, volontario dalla parte di Franco nella guerra civile spagnola (1936-1939), Giorgio Perlasca al momento dello scoppio della guerra impegnato in un’azienda di importazioni e di vendita di carni, il cui utilizzatore finale in gran parte è l’esercito, inizia un lento percorso di allontanamento dagli eccessi e si trova a partire dal 1941 sempre più in rotta di collisione con l’alleato tedesco in tutti gli scenari in cui si trova ad operare.E’ una vicenda che impiega tempo a maturare mentre lungo le molte strade d’Europa il suo girovagare per lavoro lo mette vicino ad altri uomini e donne in movimento da Ovest verso Est. Nell’estate 1943 avviene la prima svolta sostanziale. Crolla il governo Mussolini, l’Italia prova ad uscire dall’alleanza col nazismo e Perlasca senza rinnegare niente del suo passato fa la scelta di lealtà verso la monarchia. In quel momento si trova a Budapest e vi rimarrà fino a guerra conclusa. In quei 18 mesi la sua situazione si fa sempre più precaria e in quanto italiano non schierato con Salò in un Paese in cui i fascisti locali prendono sempre più potere i rischi per la sua incolumità aumentano. Poi nell’estate 1944 la situazione precipita e il movimento delle “Croci frecciate” prende il potere per stroncare sul nascere l’iniziativa del governo collaborazionista ungherese favorevole all’abbandono dell’alleanza con la Germania nazista. Inizia così l’ultima fase dell’occupazione nazista dell’Ungheria e i quattro mesi da fine agosto 1944 fino al 17 gennaio 1945 quando Pest cade in mano ai russi sono una lotta per impedire che ciò che resta del mondo ebraico ungherese sia trasportato ad Auschwitz. Nell'inverno del ' 44, addetto commerciale all'ambasciata italiana a Budapest dove si era rifugiato in seguito al rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò, Perlasca si trasforma in eroe. Con la città occupata, e i diplomatici in fuga, si "insedia" all'ambasciata di Spagna fingendosi rappresentante del governo di Madrid. In questa "veste" firma 5200 lasciapassare ad altrettanti ebrei, spacciandoli per cittadini spagnoli, che gli uomini delle SS avevano già deciso di trasferire in Germania.In quella vicenda Perlasca gioca tutte le sue carte ed è l’uomo che attraverso il falso, e in forza della falsa copertura che gli fornisce l’addetto dell’ambasciata spagnola riesce a mettere in salvo o sottrarre dalla morte migliaia di ebrei ungheresi ma anche di non ebrei (tra loro comunisti, democratici, anarchici..).Fin qui la vicenda che raccontano Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein in parte era stata già ricostruita da Enrico Deaglio nel suo La banalità del Bene (Feltrinelli 1991) e poi trasposta nella riduzione cinematografica nel 2002 da Alberto Negrin. Ma essi ampliano l’indagine soprattutto al periodo successivo al gennaio 1945 e dunque riprendono il filo del ragionamento non considerando solo ciò che accadde a Budapest, ma ponendo la domanda intorno al fatto che quella vicenda non divenne pubblica, che nessuno in Italia dopo ne parlò. E ciò apparentemente in maniera sorprendente perché Perlasca poteva essere l’icona del “bravo italiano” che tutti, o almeno tanti cercavano di dimostrare di essere stati. Solo che era “esageratamente bravo” e dunque quella sua dimensione eccessiva anziché contribuire a emendare tutti, risultava alla fine imbarazzante per tutti. Il fatto sostanziale tuttavia non è solo che Perlasca ha rappresentato un’eccezione, ma anche che dopo, a guerra finita la sua vicenda ha impiegato molto tempo a divenire pubblica e ad essere nota. Perché si chiedono Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein? Si potrebbe dire molte cose. Perlasca nel secondo dopoguerra non ha mai rinnegato il suo passato fascista, non ha mai taciuto la sua partecipazione alla guerra civile spagnola dalla parte di Franco, non ha mai negato sostanzialmente la sua convinzione politica non solo di allora, ma ha anche confermato in gran parte di crederci ancora. In breve quella vita e quella storia non erano l’effetto di una dimissione dal proprio passato, ma si presentavano come in continuità con esso.Non solo. Perlasca provò a raccontare la sua storia. La raccontò e la scrisse al rappresentante del governo spagnolo, la scrisse a De Gasperi, allora Primo ministro, ma il risultato fu il silenzio. Perché?Per gli spagnoli era un italiano che aveva svolto un compito non rivendicabile dalla Spagna e nemmeno rivendicabile da quell’addetto che pure all’inizio lo aveva aiutato per poi scomparire nel momento più drammatico. Per il governo italiano era comunque imbarazzate scoprire che fare qualcosa era possibile, che sarebbe stato necessario organizzarsi oppure ingegnarsi, comunque che la macchina della distruzione non era invincibile, che aveva punti di debolezza e che non era necessaria neppure una struttura operativa colossale. Il risultato è che la vera continuità fu rappresentata dall’indifferenza - quella di allora che preferì non agire e quella di dopo che preferì “insabbiare”. Fino alla fine degli anni ’80, quando la storia di Perlasca cominciò a girare. Ma anche allora accolta da molti con imbarazzo: a sinistra perché quel passato fascista faceva da schermo alla convinzione che solo rinnegandolo si poteva agire per fermare lo sterminio; a destra perché la nostalgia di Salò non consentiva poi di dare spazio a quella scelta in solitudine; da parte della Chiesa perché quella scelta dimostrava che molto sarebbe stato possibile fare, ma che anche a Budapest il Vaticano fu silente e reticente.Un atteggiamento imbarazzato che non si risolve nemmeno con al morte di Perlasca. Ai suoi funerali in Chiesa interviene il rabbino di Padova di allora, gli ambasciatori di Spagna e di Israele, l’incaricato d’affari d’Ungheria a Roma, una delegazione dei vigili urbani di Como, città natale di Perlasca, il sindaco e il Prefetto di Padova. E’ assente il governo italiano che pure gli ha conferito una medaglia, ma invitandolo a Roma al Quirinale, Presidente Francesco Cossiga, ma non pagandogli nemmeno il biglietto ferroviario di seconda classe per poterla ritirare. Invia un telegramma Giovanni Spadolini, Presidente del Senato e Oscar Luigi Scalfaro in quel momento Presidente della Repubblica. Nessuna gerarchia della Chiesa, incluso il Vescovo di Padova, che pure è presente ad ogni cerimonia pubblica e o non manca mai di inviare il suo messaggio, si fa vivo in quell’occasione. A suo modo quella scena che si svolge il 18 agosto 1992 nella chiesa di Sant'Alberto Magno, a Padova è la sintesi di una storia, ma anche la radiografia dell’imbarazzo che ha accompagnato tutta la vicenda. Una storia che si fonda sul carattere di un uomo in cui si congiungono franchezza, schiettezza e rifiuto di piegarsi ai potenti. “Parole - concludono Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein - apprezzate da tutti - destra, sinistra, Vaticano - ma che furono di fatto la sua rovina”.http://www.moked.it/

Safed (Sfad)

Il dialogo che continua

Mimmo Muolo - Avvenire 13/1/10
Una visita che «ha valore in sé». «Come segno di continuità», dice il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, che domenica prossima riceverà Benedetto XVI, quasi 24 anni dopo la storica prima volta di Giovanni Paolo II. A pochi giorni dal nuovo evento Di Segni ci riceve nel suo studio privato e in questa intervista ad Avvenire affronta con la consueta franchezza tutti i punti più importanti dell'agenda comune ebraico cattolica. A cominciare dal cambiamento di clima che nel giro di 12 mesi ha ribaltato una situazione di forte tensione. Perciò l'esponente ebraico afferma convinto: «Indietro non si torna». Grazie al dialogo sono stati realizzati «sostanziali passi avanti ».
Rabbino, giusto un anno fa la giornata dell'amicizia tra ebrei e cattoli ci non fu celebrata. Domenica prossima invece il Papa si recherà nella Sinagoga di Roma. Che cosa ha determinato questo netto miglioramento?La sospensione della celebrazione della giornata era dovuta alle turbolenze in merito alla preghiera del venerdì santo «pro Judaeis» che toccava un nervo scoperto della sensibilità ebraica. Se, infatti, il dialogo serve alla conversione degli ebrei, noi lo rifiutiamo per principio. Il dialogo serve invece per conoscerci e per rispettarci, cioè per farci più forti nelle nostre fedi, conoscendo meglio l'altro. Se invece ha altri scopi, per noi non ha senso. Su questo erano necessari dei chiarimenti che grazie al dialogo sono arrivati e questo ha reso possibile rasserenare il clima.E quest'anno la celebrazione assume un aspetto assolutamente eccezionale. Qual è il significato di questa visita?La visita ha valore di per sé come ge sto di continuità, poiché si colloca sulla scia di un grande gesto compiuto da Giovanni Paolo II. Il fatto che il gesto venga ripetuto significa che non resta isolato, che questa linea è tracciata e che Benedetto XVI non ha intenzione di tornare indietro. Perciò si crea un modo di rapportarsi ed una tradizione da seguire.Papa Ratzinger è già alla sua terza vi sita in una Sinagoga, è stato al Muro del Pianto e allo Yad Vashem, ha reso omaggio alla Shoah recan dosi ad Auschwitz. E tutto questo in meno di cinque anni di pontificato. Chi è oggi per il mondo ebraico Benedetto XVI?È un Papa che ha una forte sensibilità per il nostro mondo, ma anche un pensiero complesso. E infatti, accanto ad aspetti di grande simpatia per la realtà ebraica ha anche dei momenti di pensiero ben fermo, di posizioni che non incontrano ovvia mente il nostro favore. Tuttavia non è certamente un Papa che interrompe il dialogo o che dice: «Bisogna tornare indietro», anzi va avanti con la sua precisa formazione. D'altra parte se fossimo d'accordo su tutto, non ci sarebbe neppure motivo di dialogare.Quali sono i punti più urgenti di questo dialogo?In primo luogo c'è una questione di clima sereno. Certo, ogni tanto possono esserci incidenti e inciampi, ma quello che deve essere forte è la volontà di risolverli. L'altro punto fondamentale è che dobbiamo chiederci: che senso ha che i nostri due mondi si confrontino?E lei che risposta dà a questa domanda?La nostra amicizia deve servire a dimostrare che si può testimoniare la propria fede in un modo non offensivo, non aggressivo e non violento nei confronti degli altri credenti e degli altri esseri umani. Ed è un messaggio importantissimo nella fase attuale. Vorremmo anzi che il messaggio di questa visita si allarghi e coinvolga altre comunità.Recentemente la pubblicazione del decreto sulle virtù eroiche di Pio XII ha suscitato nuove reazioni da parte ebraica. Qual è la sua opinione al riguardo?Ecco, questa è una questione che di vide, è un problema di interpretazione storica, sul quale bisognerà tener presente che la sensibilità ebraica è completamente diversa. Noi vorremmo che si andasse avanti con e- strema cautela e non con gesti av ventati. Il problema, infatti, dal no stro punto di vista è ben lontano dal la sua soluzione.Che cosa intende per «estrema cautela » e quali sarebbero invece i «gesti avventati»?Estrema cautela si gnifica che esistono tantissimi documenti ancora da studiare, mentre i gesti avventati sono quelli di chi dice: «La situazione è perfettamente chiara, abbiamo chiuso il discorso e basta».Tutto chiarito invece sulla questione della preghiera del venerdì santo al la quale lei accennava prima?Sull'argomento direi che è stato raggiunto un armistizio 'politico', più che una pace vera. Nel senso che è stato chiarito dalle più alte autorità della Chiesa che la conversione non si riferisce all'immediato, ma è trasferita alla fine dei tempi.Non crede che dalla visita verrà anche l'ennesimo fortissimo no all'antisemitismo?Francamente penso che oggi il problema sia l'antigiudaismo, che è una cosa differente, ma non meno pericolosa. L'antisemitismo è un odio su base razziale e la Chiesa non può essere razzista. Ma l'ostilità antiebraica può esistere anche a prescindere dall'odio razziale ed è su quello che dobbiamo fare chiarezza, anche se devo riconoscere che sono stati fatti dei progressiso stanziali in questi ultimi anni.


Will Eisner, una Tempesta di pregiudizi

Ristampata l'opera autobiografica scritta dal grande autore di graphic novel. Storia di una tormentata infanzia ebraica in America alla vigilia della II GuerraMondiale
E' il 1942. Un giovane uomo sta andando in treno alla base militare da cui partirà verso la guerra. Mentre i commilitoni parlano, guarda dal finestrino e ripensa al suo passato. Così comincia «Verso la tempesta», graphic novel del grande Will Eisner (1917-2005) da poco ristampato da Fandango Libri a oltre dieci anni dalla prima edizione per Punto Zero (anche la nuova edizione è tradotta e curata da Andrea Plazzi, studioso dell'opera dell'autore e suo amico personale).Graphic novel è un termine abusato, spesso utilizzato da chi considera (chissà perché) svilente il termine fumetto, ma le opere di Eisner sono veri e propri romanzi a fumetti, che raccontano storie di gente comune, non di eroi o criminali. Il primo è «Contratto con Dio» del 1978 (per la verità, in questo caso si tratta di quattro racconti brevi), fortemente influenzato dalle sue radici ebraiche; l'ultimo, uscito postumo, è «Il complotto» in cui parla del libello antisemita «I protocolli dei Savi di Sion».Eisner aveva già rivoluzionato il fumetto con la serie «Spirit», storia di un ironico detective mascherato, pubblicata fra il 1940 e il 1952 sul supplemento domenicale a colori dei quotidiani americani, con storie innovative per le atmosfere noir mixate a ironia e umorismo e la grafica che strizza l’occhio al cinema. «Verso la tempesta » occupa un ruolo privilegiato tra i romanzi di Eisner, scritto nel 1990 quando l’autore aveva settant’anni, è il più autobiografico. E' un'opera sull'intolleranza e sui pregiudizi, Eisner saggiamente non considera speciale la propria condizione: come gli dice il commilitone Mamid (turco convertitosi al cris t i a - nesimo per integrarsi negli States) «cosa credete, voi ebrei, che essere discriminati sia una vostra esclusiva, uh?».Gli Eisner si trasferiscono nel Bronx nel 1928, dato che il padre continua a passare da un fallimento all'altro (è bravo ma non ha senso degli affari, era stato pittore a Vienna) in un quartiere senza comunità ebraiche e dove sono molto accese le rivalità etniche: gli irlandesi detestano gli italiani e viceversa, i tedeschi odiano gli uni e gli altri e tutti detestano gli ebrei (a loro volta del resto i colti ebrei tedeschi disprezzano quelli, a loro dire zoticoni, dell'Europa dell'Est). Memorabile la scena in cui due distributori di giornali, un italiano, Rocco, e un irlandese, Kelly, lottano perché il giovane Will (che fa lo strillone) venda solo i propri giornali. E i ricchi non sono da meno: in un club esclusivo uno dei soci propone come nuovo membro un ricco irlandese, che però viene scartato perché cattolico (se venisse ammesso poi temono in futuro tocchi a italiani e polacchi e persino agli ebrei).Ci sono flashback nel flashback, con le storie dei genitori di Eisner, entrambi ebrei, ma di origine molto diversa: la madre, Fannie, è nata in America da ebrei di origine rumena, e ha avuto una vita familiare travagliata e scarsa istruzione; il padre Samuel invece è di famiglia colta viennese, era un artista nella Austria Felix della Belle Epoque. Eisner prende da entrambi: lo spirito artistico dal padre, e il senso pratico dalla madre. A differenza di altri autori della sua generazione come Jack Kirby (cocreatore di personaggi come «I Fantastici Quattro», «Hulk» e gli «X-Men») riesce a essere proprietario del proprio personaggio «Spirit».In «Verso la tempesta» nessuno sfugge al pregiudizio: la prima ragazza di Will, Heidi, di origine tedesca rimane sconv o l t a quando scopre che è ebreo: del resto Hitler è appena andato al potere in Germania e aleggia l'ombra della II Guerra Mondiale. E quando Eisner rivede Buck, il suo migliore amico dell' adolescenza, scopre che questi è diventato un antisemita che parla di complotti dei banchieri ebrei e ammira il Fuhrer. Ma alla fine, ebrei, italiani, irlandesi, tedeschi, pur fra mille contrasti, diventano americani. Ed è bello che «Verso la tempesta» venga riproposto quando c'è un nero alla Casa Bianca. http://www.lastampa.it/


Israele e Turchia, gli ex amici rischiano la rottura

Il Giornale, 14 gennaio 2010 di Fiamma Nirenstein
Era logico che prima o poi Israele si risentisse, come una fidanzata tradita, dell’atteggiamento ostile della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Ma l’ha fatto senza calcolare bene le sue reazioni: sempre per restare al paragone con l’umana fragilità, il tradimento dopo tanti anni di fragile e preziosa vicinanza con un Paese musulmano in mezzo all’ostilità dei vicini islamici, ha causato a Israele una crisi di nervi che accelera per i due Paesi mediorientali una pericolosa rottura già nell’aria. Il presidente Gül, a sentire la televisione turca, ha minacciato di rompere le relazioni se le scuse formali non fossero pervenute entro la serata di ieri. La storia di questi giorni parla di oggetti e simboli, poltrone e bandiere, microfoni e strette di mano: il vice primo ministro degli Esteri Danny Ayalon, dato che la Tv turca ha messo in onda un serial in cui i soldati israeliani ammazzano per divertimento sadico qualche bambino, ha invitato lunedì alla Knesset l’ambasciatore Oguz Celikkol per protestare, ma si è mosso all’orientale.Gli ha mostrato cortesia e gentilezza nell’esprimergli alcune rimostranze, ma dietro le spalle aveva istruito la tv a mostrare solo volti corrucciati, l’ambasciatore seduto su una poltrona più bassa, una sola bandiera in vista, quella israeliana. Niente strette di mano. L’ambasciatore si era stupito della presenza della tv, ma la sedia l’aveva semplicemente giudicata più comoda; e poi c’era stata, ha detto, una stretta di mano, chi avrebbe detto che gli israeliani l’avrebbero censurata in tv. “Una trappola” ha protestato, e la Turchia ha chiesto scuse formali, pena richiamare l’ambasciatore. La minaccia è stata ribadita ieri dopo che Ayalon ha porto scuse poco convincenti. Netanyahu e il ministro degli Esteri Lieberman hanno aspettato molte ore per dire, in sostanza, che la Turchia ha torto ma Ayalon poteva far meglio. E il ministro della Difesa Ehud Barak ha ribadito che domenica andrà in Turchia come programmato, anche se Erdogan ha fatto sapere di non volerlo incontrare. La vicenda è la goccia che fa traboccare un vaso che la Turchia ha in questi mesi coscientemente riempito.La Turchia di Erdogan infatti è ormai difficile da immaginare come la potenza musulmana mediatrice che si distingueva per la sua operosa presenza nel campo della pace. Obama stesso, che vi compì la sua prima visita presidenziale, l’aveva vista come una porta aperta verso l’Islam, un Paese in cui la tradizione musulmana si mischia con quella laica e innovativa di Kemal Ataturk. In fondo è stata questa la valutazione che ha anche spinto in tutti questi anni la Comunità Europea a chiedersi se la Turchia possa farne parte. Di fatto, l’Europa con le sue incertezze e talvolta con petulanza è quella che ha esacerbato i sentimenti turchi, spingendoli a rendere la solidarietà islamica una della sue maggiori guide in politica estera e interna. Israele è stata la vittima sacrificale della svolta turca, la sua bandiera.Non c’è stata occasione diplomatica in cui Erdogan non abbia dato sfogo a una profonda antipatia e riprovazione verso lo Stato d’Israele: fece grande scalpore la serie di insulti lanciati pubblicamente, a Davos, da Erdogan al Premio Nobel presidente di Israele Shimon Peres. Da allora a letteralmente due giorni or sono, quando in visita al primo ministro libanese Saad Hariri, Erdogan ha di nuovo sentito il bisogno di chiarire che lui ritiene che Israele “minacci la pace mondiale”, le prese di posizione antisraeliane sono state moltissime. Fra queste, escludere Israele dalle consuete manovre militari “Aquila Anatolica”: per questo, Usa e Italia cancellarono la loro presenza. Nel frattempo la Turchia ha scelto il versante islamico, firmando patti strategici di inusitata larghezza con la Siria, sostenendo apertamente Hamas e Hezbollah, e soprattutto tessendo con l’Iran uno dei rapporti più stretti e amichevoli che Ahmadinejad possa vantare, dall’accoglienza regale alla Moschea Blu al presidente iraniano seguita da una visita a Teheran, alle ripetute dichiarazioni anche dopo le elezioni iraniane che la Turchia mai si unirà alle richieste di fermare la corsa all’atomica.


Riccardo Pacifici

Intervista a Riccardo Pacifici: Comunità ebraica, parla Pacifici "ho la tessera radicale in tasca"

da La Repubblica - ed. Roma del 14 gennaio 2010, di Gabriele Isman
«Pannelliano? Mi chiamano così da sempre, e da anni ho la tessera dei Radicali. Pannella e Spadolini furono gli unici politici ammessi al Tempio maggiore il giorno dell´attentato. Era il 9 ottobre 1982». A parlare è Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana. Pacifici è impegnatissimo nella preparazione della visita di domenica di Benedetto XVI alla sinagoga: «Abbiamo 550 giornalisti accreditati da tutto il mondo. È davvero un onore ricevere il Papa» dice, ma i toni cambiano quando parla delle elezioni. In mattinata aveva detto: «Guardate alla mia storia», e a chi gli ricordava le sue posizioni vicine ai radicali in passato: «Soltanto in passato?». Nel pomeriggio il tono è diverso: «Il voto è segreto però..». Però Emma Bonino ha una storia chiara alle spalle. Il suo sostegno a Israele è indiscutibile. Peserà sul voto di marzo?«La comunità non fa politica, ma esprime valori. Non esiste il voto compatto: ogni ebreo, al pari di ogni elettore, giudicherà i programmi, e l´impegno delle candidate su temi quali l´ambiente, l´economia, la famiglia. Ci sono poi temi storicamente hanno un posto rilevante nel cuore di noi ebrei: la libertà religiosa, il rispetto della Costituzione, l´antifascismo, il diritto di Israele a esistere».Bonino ha una posizione chiara su questi.«È indiscutibile che la Bonino si sia battuta da sempre per Israele e ne abbia proposto tra i primi l´ingresso nell´Unione europea, ma d´altra parte la Polverini non è fascista».Eppure nel suo comitato vi sono anche personaggi non certo antifascisti.«Si parla di Adriano Tilgher (condannato negli anni Settanta per tentata ricostruzione del partito fascista, ndr). A parte che ho motivo di credere che non sosterrà la Polverini, ma anche la Bonino è sostenuta da partiti dell´estrema sinistra che non hanno simpatia per Israele. Cosa prevarrà nella linea delle due candidate? Per questo dico che bisogna guardare i programmi. Noi della Comunità saremo vigili morali: i nostri voti non contano molto, ma siamo pronti a denunciare moralmente chi negli schieramenti non rispetterà i nostri valori. Su questo non scenderemo a patti».La comunità romana, secondo molti analisti, ha avuto un certo peso nell´elezione di Alemanno al Campidoglio. Lei davvero non si espone?«Non saranno candidate soltanto la Polverini o la Bonino. Può darsi che qualcuno scelga altri, come Michele Baldi, sia per il suo programma sia per la sua fede romanista». E scoppia a ridere.

mercoledì 13 gennaio 2010




Gerusalemme

BREVI DA ISRAELE.NET

13/01/2010 Il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha respinto martedì i nuovi sforzi di pace dell'amministrazione Usa, ribadendo le sue precondizioni per la ripersa del negoziato, fra cui il congelamento totale e definitivo di tutte le attività edilizie negli insediamenti e a Gerusalemme est.13/01/2010 Gli aiuti all'Autorità Palestinese da parte dell'Unione Europea nel solo 2009 sono stimati in oltre 200 milioni di euro, il che fa della UE uno dei principali donatori.13/01/2010 All'indomani della convocazione dell'ambasciatore turco in Israele presso il ministero degli esteri israeliano, descritta come umiliante (il diplomatico è stato fatto sedere su un sofà più basso delle sedie dei suoi interlocutori israeliani, davanti a una bandierina israeliana), martedì è stata la volta della diplomazia turca che ha convocato l'ambasciatore israeliano ad Ankara per spiegare le "umiliazioni inflitte" il suo collega in Israele. La crisi diplomatica è iniziata con una protesta di Gerusalemme per un serial tv turco dai tratti fortemente antisemiti che descrive ebrei e israeliani come spietati assassini di bambini e criminali di guerra. Ma è la Turchia che dice di attendersi delle scuse da Gerusalemme.13/01/2010 Arabia Saudita: "Aderire ad Al Qaeda è illecito". Lo ha detto martedì lo sceicco Abdel Mohsen al-Obeikan, importante consigliere religioso di re Abdullah, citato dal quotidiano Oukazi. Secondo l'esponente saudita, la rete terrorista islamista ha adottato una scuola di pensiero in contrasto con l'Islam, ma vicina alla corrente "takfiri", che consiste nell'accusare dei fedeli musulmani di apostasia per giustificarne l'uccisione.
Per le altre brevi, http://israele.net


Israeliani e palestinesi insieme Una pace sull'acqua del Giordano

Rapporto sul Good Water Neighbors: il progetto intende costruire rapporti di buon vicinato fra le due comunità, unite dal fiume che attraversa Libano, Siria, Giordania, Israele e i territori palestinesi. Verrà creato un parco naturale che diventerà una zona franca liberamente accessibile
Tel Aviv, 12 gennaio 2010 - Il fiume Giordano è un protagonista silenzioso della crisi mediorientale e lungo le sue rive israeliani, palestinesi e giordani dialogano per ripartirsi equamente l’unica risorsa idrica che può garantire la sopravvivenza di nazioni che non hanno buoni rapporti di vicinato.Il Giordano ed i suoi affluenti formano un singolare bacino idrico transfrontaliero che attraversa Libano, Siria, Giordania, Israele ed i territori dell’Autorità Palestinese. Nessuno di questi paesi può utilizzare le acque del Giordano o dei suoi affluenti a prescindere dagli altri paesi rivieraschi cosicché, per l’approvvigionamento idrico, tutti dipendono da tutti.Se si fa eccezione per il Libano e la Turchia, nella Regione Medio Orientale la siccità è un problema all’ordine del giorno e la human security è ben più di una questione militare: essa dipende innanzitutto dall’approvvigionamento idrico che, in regime di penuria, esige soluzioni concertate a livello politico, sociale, giuridico, tecnologico ed ambientale.Il fiume Giordano nasce dalla confluenza dei torrenti siriani Banias, Hasbani e Dan, entra in Israele, forma il lago di Tiberiade (noto anche come lago Kinneret o mare di Galilea), ne esce per ricevere l’affluente giordano Yarmuk, sfocia nel Mar Morto. Gli interventi dei paesi rivieraschi sugli affluenti e sul bacino di Kinneret, sia attraverso i canali di deviazione delle acque che attraverso gli scarichi, civili, agricoli e industriali, nonché la presenza di sorgenti salate e termali sulla riva occidentale del lago di Tiberiade, creano un allarme costante sia per l’abbassamento del livello delle acque (in passato il fiume scaricava nel Mar Morto circa 1.200 milioni di metri cubi di acqua che oggi si sono ridotti ad appena 100-200 milioni di metri cubi) sia in termini di degrado qualitativo (crescente tasso di salinità ed inquinamento).La scarsità d’acqua ha sempre costituito in quest’area un catalizzatore determinante nella definizione dei confini e degli strumenti giuridici di cooperazione fra le comunità locali.Dopo la fine dell’impero ottomano, che comprendeva l’intero bacino del Giordano sotto un’unica sovranità, a partire dal 1918 la questione idrica ha costituito uno degli elementi determinanti del negoziato franco – britannico per la definizione dei confini del territorio palestinese (allora protettorato britannico) sia rispetto alla Siria - sotto protettorato francese (l’accordo approvato dalla società delle Nazioni nel 1923 prevedeva che il Lago di Tiberiade restasse in territorio palestinese e che il confine con la Siria corresse dieci metri più in là del bordo del lago, pur riconoscendo ai siriani i diritti di pesca e di navigazione sul lago, nonché a est del fiume Giordano. Dal confine internazionale così stabilito si discostò di poco la linea dell’armistizio concordata nel 1949 fra il neonato stato di Israele e la Siria) – che rispetto alla Transgiordania (benché nel 1922 entrambi i territori fossero sotto protettorato Britannico l’alto commissario britannico per la Palestina chiarì a W. Churchill che il confine fra i due territori correva nel mezzo del fiume Giordano). Nel 1953 Eisenhower inviò Eric Johnston come mediatore per la definizione di un accordo sulla ripartizione dell’utilizzo delle risorse idriche del bacino del Giordano fra Siria, Libano, Giordania ed Israele. Il piano di distribuzione, definito nel 1955, ripartiva, sulla base del principio di equità, circa il 60% delle risorse idriche del suddetto bacino fra Siria,. Libano e Giordania (consentendo a quest’ultima di costruire una diga a Maqarin sull’affluente Yarmuk) e riconosceva ad Israele l’utilizzo del restante 40%. Benché avversato dalla Lega Araba, il piano Johnston fu in effetti attuato da Israele e Giordania e sebbene non sia divenuto oggetto di una convenzione internazionale ha costituito de facto il punto di partenza di un dialogo e di una cooperazione fattiva che, sul tema dell’approvvigionamento idrico, è continuata fra i due paesi anche durante il successivo conflitto arabo israeliano ed ha facilitato il perfezionamento del trattato di pace che venne siglato fra Israele e Giordania il 26 ottobre 1994 (una specifica previsione del Trattato di pace – l’art. 6 - recepisce il principio di equa distribuzione delle risorse idriche fra i due paesi).Anche la Dichiarazione dei Principi firmata dopo la Prima Intifada, nel 1993, da Rabin e Arafat alla Casa Bianca davanti al presidente Clinton ha introdotto il principio di cooperazione fra israeliani e palestinesi per la gestione delle risorse idriche. Nel 1995, con la firma della seconda parte degli accordi di Oslo e la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese, venne altresì costituito un Joint Water Committee permanente con rappresentanti dello stato di Israele e della Autorità Nazionale Palestinese (c.d. JWC). Gli accordi contengono l’esplicito riconoscimento da parte di Israele dei water rights palestinesi nella West Bank. Il Joint Water Committee israeliano-palestinese è l’unica istituzione di cooperazione sopravvissuta dopo il collasso degli accordi di Oslo ed ha continuato ad operare, attraverso gli anni della Seconda Intifada, fino ad oggi.La storia del Giordano e del suo bacino mostra che proprio l’acqua di questo fiume ha costituito nel corso del secolo scorso un’occasione di cooperazione piuttosto che di conflitto fra le nazioni rivierasche.Questa intuizione è alla base dei numerosi progetti di cooperazione promossi da una importante organizzazione non governativa mediorientale. Ho conosciuto il suo presidente, Gidon, la sera dell’ultimo dell’anno, nel corso di una festa cosmopolita che si è tenuta sul suo terrazzo, fra i tetti di Tel Aviv. Mi ha spiegato che funzionari israeliani, palestinesi e giordani lavorano insieme per individuare le comunità locali che, proprio perché collocate sulle opposte rive del fiume, sono legate da una comune dipendenza dall’unica risorsa idrica. L’idea è che questa dipendenza possa costituire la base per sviluppare il dialogo e la cooperazione trasfrontaliera sulla gestione sostenibile dell’acqua. Il progetto pilota si chiama Good Water Neighbors (GWN) e intende costruire “sull’acqua” dei buoni rapporti di vicinato. L’anno scorso docenti e studenti della scuola di Architettura ed Urbanistica della Yale University si sono riuniti a Tel Aviv e ad Amman con i loro colleghi giordani, palestinesi ed israeliani al fine di elaborare – nel corso di una charrette durata sei giorni - il progetto di un Parco naturale transfrontaliero che dovrebbe sorgere dieci chilometri a sud dell’estrema punta meridionale del mare di Galilea, alla confluenza del fiume Yarmuk con il Giordano. Il parco dovrebbe includere la dismessa centrale idroelettrica di Rotenberg, che diventerà un centro visite e di osservazione per il birdwatching, e i tre ponti storici che attraversano il fiume: quello romano, costruito duemila anni fa, il ponte ferroviario ottomano ed il ponte britannico, costruito durante il protettorato per il transito dei veicoli. Nessun essere umano, treno o veicolo ha più attraversato quei ponti dal conflitto arabo israeliano del 1948. Sessant’anni dopo, l’università, un’organizzazione non governativa ed un gruppo di amministratori locali hanno concepito il progetto di creare un parco naturale che dovrebbe servire non solo a preservare le rive del Giordano ma anche a creare una zona franca, liberamente accessibile ed in grado di attirare una quota sempre maggiore di quei sessanta milioni di turisti che dall’Europa e dal Nord America ogni anno si spostano verso mete ecoturistiche, così da generare anche una fonte di reddito per le comunità delle opposte rive del fiume.Nella terra di Giuda scorre un fiume che oggi come un tempo reca una promessa e riapre il cuore verso il limpido cielo di Sion. Chiara Alvisi (Professore dell’Università di Bologna)


Israele: nasce 'facebook' per bimbi

Gia' tradotto in 8 lingue, presto versione italiana
(ANSA) - TEL AVIV, 12 GEN - Arriva Shidonni, il primo e piu' popolato social network per under 12, fondato da un gruppo di israeliani a Rehovot, a sud di Tel Aviv.Superata da poco la soglia dei 200.000 utenti, questo 'facebook' a portata di bambino e' stato gia' tradotto in otto lingue ed entro due mesi, secondo quanto svelano i suoi ideatori, sara' disponibile anche in versione italiana. Il bambino disegna il suo personaggio o qualsiasi oggetto desideri e noi gli diamo vita, ha detto il fondatore e ad Ido Mazursky.


soldatessa israeliana

Israele: vacilla tabu', esce libro di ricette sul maiale

L'autore ha appreso tecniche durante suoi studi a Modena
(ANSA) - TEL AVIV, 12 GEN - Un tabu' ebraico sta per essere messo in discussione in Israele con la pubblicazione di un libro su come meglio cucinare la carne di maiale.E' l'animale immondo per antonomasia nella cultura rabbinica. Il libro e' in ebraico ed e' stato scritto da un israeliano, il cardiologo Eli Landau. Al quotidiano Yediot Ahronot, Landau ha spiegato di aver assimilato negli anni di studi medici a Modena tecniche culinarie con cui esaltare il sapore della carne suina.Il libro sara' venduto nelle macellerie suine ad un prezzo equivalente a venti euro. (ANSA).



Aboul Gheit


Netanyahu favorevole a Gerusalemme Est capitale Anp

Secondo il ministro degli esteri egiziano, Aboul Gheit
GERUSALEMME - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu sarebbe disposto a permettere che Gerusalemme Est diventi la capitale di uno Stato palestinese: lo ha affermato il ministro degli Esteri Ahmed Aboul Gheit, le cui dichiarazioni sono state riportate dal quotidiano israeliano Ha'aretz.Contestualmente, l'Autorità Nazionale Palestinese potrebbe rinunciare ad alcune precondizioni per la ripresa dei negoziati di pace con Israele, come il congelamento totale degli insediamenti, in cambio di un allentamento del blocco della Striscia di Gaza e della fine delle incursioni mirate israeliane nelle città palestinesi.Inoltre, l'Anp vorrebbe il rispetto delle «zone» in cui è divisa la Cisgiordania: le «A», sotto piena sovranità palestinese, e le «B» dove l'Anp ha il controllo delle autorità civili ma non della sicurezza: in altri termini, che le forze armate israeliane si ritirassero sulle posizioni mantenute fino al settembre del 2000, allo scoppio della seconda Intifada.APCOM - 12/01/2010


Renata Polverini

POLVERINI INCONTRA AMBASCIATORE D'ISRAELE GHIDEON MEIR

Roma, 11 gen. - (Adnkronos) - Si e' svolta questa mattina a Roma, alla presenza del segretario generale dell'Ugl, Renata Polverini, la visita ufficiale dell'ambasciatore d'Israele in Italia, Ghideon Meir, presso la sede confederale Ugl. La visita fa seguito al recente viaggio ufficiale in Israele di Polverini a capo di una delegazione del sindacato.Durante l'incontro, al quale ha partecipato una folta rappresentanza dell'organizzazione sindacale, sono stati toccati numerosi temi relativi ai rapporti tra Italia e Israele con il comune auspicio di sempre migliori relazioni tra i due Paesi. L'ambasciatore Meir ha ricordato le diverse collaborazioni che Israele ha stretto in molteplici campi con il nostro Paese e ha sottolineato l'importanza che i rapporti tra Italia e Israele siano sempre piu' intensi anche a livello della societa' civile, a partire da quella rappresentata dall'Ugl in Italia.


Recep Tayyip Erdogan

TENSIONE ISRAELE-TURCHIA, "FRASI ERDOGAN MINANO RAPPORTI"

(AGI) - Gerusalemme, 11 gen. - Alta tensione tra Israele e Turchia: il primo ministro di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, ha duramente criticato lo Stato ebraico per i sorvoli di jet israeliani nei cieli del Libano e il bombardamento di domenica nella Striscia di Gaza. "Perche' lo hanno fatto?", ha chiesto Erdogan, "non vi era stato alcun lancio di razzi" da parte di Hamas, ne' di Hezbollah. Il premier turco ha poi paragonato Israele all'Iran: "Chi mette in guardia sul pericolo (del nucleare iraniano), deve avere la stessa cautela con Israele che non ha mai negato di avere armi nucleari". Ad aggiungere ulteriore tensione, e' stata anche la messa in onda di una serie su una tv privata turca in cui venivano raffigurati gli agenti segreti dello Stato ebraico come dei rapitori di bambini. "Protestiamo in nome del governo israeliano contro le scene di quella serie tv turca che mostrano Israele e gli ebrei come rapitori di bambini e criminali di guerra", ha riferito il ministero degli Esteri israeliano che per questo motivo ha convocato l'ambasciatore turco. "E' inaccettabile, tutto cio' minaccia la vita degli ebrei in Turchia e le relazioni bilaterali", ha aggiunto. Il ministero degli Esteri israeliano ha giudicato le affermazioni di Erdogan come "parole in liberta'": "Lo Stato di Israele ha il pieno diritto di proteggere i suoi cittadini dai missili e dal terrore di Hamas e Hezbollah", ha aggiunto il ministero degli Esteri, "e i turchi sono gli ultimi che possono predicare moralita' allo Stato di Israele e all'esercito israeliano".


Rehovot istituto Weizmann

Israele: Netanyahu conferma costruzione barriera al confine con Egitto

Israele costruirà una barriera lungo il confine meridionale con l’Egitto al fine di fermare gli attraversamenti illegali da un Paese all’altro, secondo quanto detto dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Lo stesso Premier ha fatto sapere, in una nota pubblicata la scorsa domenica, di aver “deciso di chiudere il confine meridionale tra Egitto e Israele al fine di bloccare il passaggio di ulteriori terroristi.” Decisione che è stata presa al fine di assicurare il carattere ebraico e democratico dello Stato israeliano. Netanyahu continua spiegando gli obiettivi: la nazione israeliana rimarrà una terra aperta per i profughi di guerra, “ma non possiamo permettere che migliaia di lavoratori clandestini si infiltrino attraverso la frontiera meridionale e inondino il nostro paese”.Infatti secondo una stima fatta dalla polizia israeliana, sembra che ogni settimana da 100 a 200 persone si infiltrano entro i primi 210 chilometri, circa 130 miglia, all’interno del confine meridionale nazionale. Secondo Israel’s Hotline for Migrant Workers, un gruppo che combatte per i diritti dei lavoratori migranti e che promuove i diritti dei lavoratori privi di documenti, il numero di coloro che varcano il confimo sarebbe invece di poche migliaia di persone all’anno.Il novanta per cento di coloro che attraversano la frontiera illegalmente sono rifugiati che provengono dal Nord Africa. Il resto invece si pensa che possano essere i lavoratori migranti, trafficanti di droga e donne.Secondo l’ufficio del primo ministro israeliano sembra che la costruzione della barriera tra Israele e Egitto richiederà diversi anni. Al momento nessuna data di inizio dei lavori è stata annunciata. Il costo stimato del progetto, invece, è di circa 1 miliardo di shekel, ovvero circa 269 milioni dollari.La recinzione sarà costruita in due sezioni. La prima inizierà vicino a Rafah e seguirà la direzione sud, mentre la seconda nei pressi della località turistica di Eilat e sarà costruita verso nord. La barriera non sarà invece costruita nei pressi di un terreno difficile, che già scoraggia di per sé il valicamento della frontiera.Israele ha già costruito in passato una barriera che separa la Cisgiordania da una parte dello Stato ebraico. La costruzione fu iniziata da Israele nel 2002, nel tentativo dichiarato di arginare l’ondata di attentati suicidi palestinesi che è diventata un evento assolutamente frequente in Israele nel corso della seconda Intifada, iniziata nel settembre 2000.Per capire di cosa può essere capace in questo senso Isreale, la barriera, che si trova attualmente tra il Paese stesso e la Cisgiordania, è lunga oltre 400 km ed è composta da 20 sezioni. E’ stata innalzata all’interno di aree più densamente popolate e è composta, oltre che da muro, anche da grandi recinzioni di filo spinato, soprattutto nelle sezioni rurali. La costruzione di questa muraglia si è arrestata però nel corso degli ultimi due anni a causa di problemi giudiziari e di questioni legate al bilancio.Staremo anche a vedere come reagiranno le varie associazioni a questa decisione, tra e quali anche l’ONU, che tra l’altro ha già esortato Israele a smantellare la barriera con la Cisgiordania.11,01, 2010 http://periodicoitaliano.info/


Gerusalemme

Israele prepara il contro-rapporto Goldstone

Tel Aviv, 12 gen -"All'origine delle accuse mosse ad Israele di aver compiuto crimini di guerra ci sono testimonianze distorte". Questa la replica di Israele al rapporto Goldstone del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite. Il quotidiano israeliano Maariv ha anticipato che il governo israeliano sta realizzando un contro-rapporto sull'operazione Piombo fuso, la cui pubblicazione è prevista nelle prossime settimane. L'esame delle critiche mosse ad Israele è stato capillare. Il giornale precisa che "non è stato trovato alcun caso in cui un soldato abbia colpito intenzionalmente persone innocenti". Il testo messo a punto dall'esercito è adesso al vaglio dei vertici politici israeliani, i quali potrebbero divulgarlo nel prossimo futuro.



Olanda: è morta Miep Gies, scoprì il Diario di Anna Frank

Roma, 12 gen - Aveva 100 anni, ha trascorso i suoi ultimi momenti in una casa di riposo in Olanda. Fu lei, Miep Gies, a scoprire i diari di Anna Frank, la bambina simbolo della Shoah. La signora Gies è morta qualche settimana fa a seguito di una caduta accidentale. Era l'ultima superstite del gruppo che tra il luglio 1942 e l'agosto 1944, aiutò a nascondere Anna Frank, i genitori, la sorella e altre quattro persone nella famosa casa sul Prinsengracht, a Amsterdam, poi diventata un museo. Nel febbraio 2009, quando aveva festeggiato il suo centesimo compleanno, lucida e modesta come sempre aveva ripetuto di non sentirsi affatto un'eroina ed aveva detto anzi che altri avevano fatto molto più di lei per cercare di proteggere gli ebrei dalle persecuzioni naziste. Con il marito e alcuni colleghi, dopo l'invasione nazista dell'Olanda aiutò a nascondere Edith e Otto Frank, le loro figlie Margot e Anne e altri ebrei che temevano di essere deportati nell'Achterhuis, un appartamentino segreto posto sopra gli uffici dell'Opekta, nella parte ovest di Amsterdam. Il nascondiglio venne scoperto la mattina del 4 agosto 1944 in seguito alla soffiata di un anonimo informatore della Gestapo. Gli occupanti furono tutti arrestati. Miep Gies fu lasciata andare perché l'ufficiale addetto alla perquisizione era austriaco come lei. Nell'appartamento rimasto vuoto Miep Gies trovò poi il diario di Anna e lo nascose in uno scrittoio pensando che la ragazzina sarebbe ritornata. Al termine della guerra, quando venne a sapere che era morta di tifo nel campo di Bergen-Belsen, consegnò l'insieme di fogli e taccuini all'unico superstite della famiglia, il padre di Anna, che li organizzò in un diario e li pubblicò nel 1947. Assieme al marito Jan, Miep diventò una sorta di ambasciatrice alla memoria di Anna e del suo diario, una delle testimonianze più toccanti degli orrori della Shoah. Si adoperò molto anche contro i cosiddetti negazionisti e contro quanti sostenevano che quello scritto era un falso.


Piazza del Campidoglio a Roma
Rassegna stampa

I giornali di oggi (fra gli altri Repubblica e Luca Mastrantonio sul Riformista) sono pieni della boutade pubblicitaria di Oliver Stone, che avendo deciso di fare una serie di ritratti televisivi dei grandi dittatori del Novecento ha dichiarato che Hitler, Stalin, Mao ecc. erano "capri espiatori" e non così cattivi come si dice. Non cadremo nel suo gioco indignandoci e commentando una evidente provocazione.Infinitamente più serio, ma fuori anch'essa dall'argomento specifico dell'ebraismo è il secondo oggetto di commento diffuso dei giornali, il duro scontro di Rosarno in Calabria fra lavoratori immigrati dall'Africa e abitanti, con morti è feriti. E' razzismo? E' camorra? E' una guerra fra i poveri per il lavoro? Gli italiani sono razzisti (così la pensa il Vaticano, secondo Marino Collecciani sul Tempo e Monteforte sull'Unità; risponde indignata Giovanna Maglie su Libero che sotto questa lettura si nasconde un pregiudizio contro il governo. Non bisogna parlare di razzismo ma di ordinaria xenofobia (Alberoni su Liberal). E' tutta colpa della Lega, che pure non risulta presente in zona? (intervista a Tabucchi sul Fatto quotidiano).A questo proposito, l'economista Trito Boeri in un intervento sul Riformista dà alcuni dati interessanti e molte interpretazioni discutibili di una ricerca della fondazione Rodolfo Debenedetti sulla condizione economica e sociale degli immigranti.Passando alla Shoà e alle stragi naziste in generale, la procura di Roma ha aperto un'inchiesta su due ex militari tedeschi per la strage di Cefalonia in cui dopo l'8 settembre morirono centinaia di militari italiani (Il Tempo, Il Corriere).Sta montando una campagna contro il rafforzamento del confine fra Egitto e Gaza per evitare il contrabbando di armi e in definitiva la Guerra. Un "muro" del tutto legittimo, che segue un confine internazionale incontestato. Ma Avvenire pubblica un intervento di Padre Pizzaballa contro la delimitazione che "danneggerà i palestinesi". Il solito Umberto De Giovannangeli, poi, come sempre scambiando la causa per l'effetto, contrappone sull'Unità "i muri" fra Israele Egitto e territori palestinesi al "dialogo". Da notare l'apparentamento fra comunisti ed ex comunisti: il ragionamento di De Giovannangeli non si discosta da quello di Zvi Shulder pubblicato dal Manifesto e dalla cronaca di Michele Giorgio sullo stesso Manifesto. Ma a completare la campagna anti-israeliana non manca all'appello anche l'altrettanto solito Umberto Tramballi sul Sole. Peccato che i muri non servano a bloccare il dialogo, ma i movimenti delle armi. Chi non vuole i muri che contengano i terroristi vuole lo scontro militare, o preferibilmente la resa e la scomparsa di Israele. Battistini sul Corriere e Baquis sulla Stampa riportano con maggiore completezza le parole di Natanyahu, che spiega trattarsi di una "difesa dal terrorismo", evidentemente sostitutiva di scelte più cruente. Il solo giornale che mostra però davvero di aver capito questo aspetto del progetto egiziano, e il solo che si sottragga alla non tanto implicita difesa della libertà di azione di Hamas dell'Unità è Il Foglio.Passando alla politica italiana, sembra che Lele Fiano debba lasciare il suo posto al comitato di controllo dei servizi segreti a D'Alema, che lo andrebbe a presiedere (Corriere); e che la candidata del centrodestra alla regione Lazio, Polverini, che oggi annuncia l'alleanza con Pionati (Il Giornale) sia tentata di candidare nella sua lista la figlia di Rauti, moglie di Alemanno (Il Corriere).Avvenire segnala che domenica col Papa a visitare la sinagoga di Roma ci sarà anche il capo della Chiesa cattolica del Medio Oriente, Twal. Molto interessante l'articolo di Angelo Pazzana su Libero quotidiano, in cui si analizza un fumetto molto propagandato di un certo Joe Sacco, che si inventa un massacro di centinaia palestinesi mai avvenuto durante la guerra del '56 con modalità naziste. E' un caso tipico di propaganda menzognera: un'invenzione presentata come se fosse storica e difesa dall'autore come narrativa. E' chiaro che il lettore prende sul serio questa invenzione, la applica al presente e si convince che Israele è da sempre e per sempre uno Stato assassino, degno di essere combattuto e umiliato in tutti i modi.Da segnalare infine l'articolo di Paolo Mieli sul Corriere che recensisce un libro di un economista Phillip Simmonot che vede le religioni come imprese che mirano al monopolio, ma hanno bisogno della concorrenza. Mieli lo trova interessante, a me sembra una sfilza di presuntuose banalità. Ugo Volli, http://www.moked.it/



Shivà, di Ronit e Shlomi Elkabetz

Scritto e diretto dalla star israeliana Ronit Elkabetz insieme al fratello Shlomi, Shivà racconta la storia della famiglia Ohayam in lutto per la morte dell’amato Maurice.La tradizione ebraica prescrive un periodo di lutto di sette giorni durante il quale la famiglia vive sotto lo stesso tetto, prega e riceve gli ospiti.Rinchiusi nello spazio fisico sigillato della casa di Maurice con gli specchi e i quadri coperti, gli Ohayam perdono, in poco tempo, il senso del loro essere lì, si concentrano sui loro problemi personali e producono, così, tensioni che porteranno a una sorta di resa dei conti finale tra tutti.Haim, il titolare dell’azienda che ha dato lavoro e benessere a tutta la famiglia, rischia il fallimento; Meir è in corsa per diventare il sindaco di Kiriat Yam; Simona non parla con nessuno mentre Vivianne cerca continuamente di evitare l’ex marito Eliyahu che non vuole darle il get, il divorzio. Ilana piange la morte del marito ed Evelyn cerca di attirare l’attenzione di Ben Lulu, un amico della famiglia. Su tutti troneggia la figura dell’anziana madre che, in silenzio, osserva e compatisce i figli. Girato in maniera asciutta (inquadrature fisse e assenza di musica) con un cast in stato di grazia composto da nomi noti del cinema israeliano (oltre a Elkabetz, Yael Abecassis…) il film possiede decisamente una qualità teatrale; è come se vedessimo una serie di scene teatrali in successione. C’è anche la presenza di un gruppo di anziane donne che, come il coro della tragedia greca, si rivolgono direttamente agli spettatori per commentarne l’azione. Film che raccontano di individui costretti in spazi chiusi rappresentano un vero e proprio genere. L’israeliano Lebanon, vincitore del Leone d’Oro a Venezia, è la storia di sei soldati israeliani rinchiusi in un tank. Lifeboat di Hitchcock si sviluppa interamente sopra una barca di salvataggio in mezzo all’Oceano; Laurence Kasdan ne Il Grande Freddo filma, in una grande casa, l’incontro di un gruppo di vecchi amici dopo la morte di uno di loro.L’escamotage narrativo dello spazio limitato permette di mostrare i personaggi senza la maschera del loro ruolo sociale, costretti a confrontare se stessi e gli altri fino all’ultimo. In Shivà lo spazio chiuso è disturbato continuamente dai bombardamenti degli ccud irakeni della Prima Guerra del Golfo.La realtà dello Stato ebraico si fa sentire nella composizione della famiglia Ohayam, un microcosmo della società israeliana: la famiglia è composta da Sephardim Marocchini ed Irakeni e Ashkenazim di origine tedesca che parlano ebraico, arabo, francese e tedesco. L’azienda di famiglia è stata creata con i soldi delle riparazioni del governo tedesco. Le tensioni interfamiliari diventano, così, una metafora delle tensioni che percorrono Israele.È la vecchia madre, simbolo della tradizione, a ristabilire l’ordine nel gruppo: la shivà diventa, così, il momento della riaffermazione dell’identità.Nella scena finale che si svolge significativamente nel cimitero, luogo della scena iniziale del film, la famiglia marcia insieme, unita, verso la macchina da presa per la prima volta in movimento. Il periodo della shiva è terminato e la transizione verso una nuova fase nella vita degli Ohamayan è compiuta.Rocco Giansante, http://www.moked.it/


Oliver Stone riscrive la storia e Hitler diventa un capro espiatorio

Ormai è una certezza: il revisionismo storico è sempre più di moda. E non si ferma solo a sedicenti storici come David Irving, ma fa proseliti anche nel mondo dello spettacolo. L’ulteriore riprova ne è una notizia giunta nelle scorse ore dall’America. Ha destato grande scalpore, infatti, il contenuto di un’intervista rilasciata da Oliver Stone al quotidiano britannico Guardian, nel corso della quale il celebre regista newyorkese ha definito Hitler “un facile capro espiatorio che va giudicato nel suo contesto storico”. Che abbia pronunciato queste parole solo per provocare, come sostengono in molti, o che ne sia veramente convinto, Stone è riuscito in ogni caso a raggiungere lo scopo che si era prefisso: far parlare nuovamente di sé e catalizzare l’attenzione degli spettatori statunitensi sull’Oliver Stone's Secret History of America, show prossimamente in onda sul piccolo schermo. Secondo Stone, il suo programma andrebbe a colmare alcune lacune esistenti nel sistema educativo americano, colpevole di propinare ai ragazzi “inesattezze se non vere e proprie bugie sul Novecento”. E ciò avverrebbe attraverso un racconto “convenzionale e non veritiero delle vicende”. La soluzione: mandare una copia del discutibile “corso di storia”, come lo chiama lui, negli istituti scolastici del paese. Non si parlerà solo di Hitler, ma ci sarà spazio anche per altri personaggi chiave del secolo da poco conclusosi, tuttavia è evidente che il “pezzo forte” sarà rappresentato dalla puntata dedicata al dittatore nazista, la cui figura sarà messa a confronto con quella di Stalin, “quasi un eroe” a sentire il tre volta premio Oscar, che forse si dimentica i milioni di morti dei gulag. Ma tanto era già stato chiaro al momento della presentazione del progetto, quando aveva spiegato di voler “creare un’empatia con uomini che sarebbe invece molto facile odiare”. L’amico e collaboratore Peter Kuznick ha comunque precisato che “non daremo un giudizio positivo né di Hitler né degli altri personaggi, ma cercheremo al contrario di descriverli come fenomeni storici senza prestarci al giochetto di categorizzarli come buoni o cattivi”. E mentre le polemiche infuriano, una cosa risulta sempre più evidente: Oliver Stone, il maestro della provocazione per antonomasia, ha colpito ancora.Adam Smulevich, http://www.moked.it/